Giovanni Ghiselli: professore di greco e latino
27 Gennaio 2019Giusy
27 Gennaio 2019Terza parte della conferenza su Essere cittadino III parte 14 giugno 2014, di Giovanni Ghiselli
Tucidide II, 40, 2
Il cittadino-polivthÏ,, non può non partecipare alla vita della povliÏ,.
Solo noi consideriamo (nomivzomen) non pacifico ( oujk ajpravgmona) ma inutile (ajll j ajcreiÌ?on) chi non prende parte alla vita politica (tov te mhde;n twÌ?nde metevconta).
Plutarco ricorda che tra le leggi di Solone era sorprendente quella che sanciva l’ajtimiva, la perdita dei diritti per chi in caso di sedizione non si fosse schierato da nessuna parte (Vita di Solone, 20, 1)
Alla direttiva del mevtecein gli oligarchici contrapposero l’esaltazione della vita privata con il ta; eJautouÌ? pravttein
I professori fascisti dicevano: a scuola non si deve fare politica.
Anche Euripide polemizza contro questa tendenza all’astensionismo politico. Il Ciclope del suo dramma satiresco afferma che il suo dio è la pancia e biasima i legislatori che con le leggi hanno complicato la vita umana ( oiJ de; tou;Ï, novmouÏ,- e[qento poikivllonteÏ, ajnqrwvpwn bivon, Ciclope, 338-339)
II, 40, 2
Non riteniamo i discorsi un danno per le azioni (ouj tou;Ï, lovgouÏ, toiÌ?Ï, e[rgoiÏ, blavbhn), ma piuttosto è un danno non essere informati con la parola prima di agire
II, 40, 3
Calcoliamo i rischi in maniera molto precisa, eppure osiamo . Anche in questo ci distinguiamo dagli altri (diaferovntwÏ, kai; tovde e[comen).
C’è l’orgoglio della propria diversità
“”Ma ecco, non bisogna essere come gli altri” . suggerisce Al’ioscia Karamazov allo studente Kolia [1]. “Continuate, dunque, a essere diverso dagli altri; anche se doveste rimanere solo, continuate lo stesso” [2].
“Della nostra esistenza dobbiamo rispondere a noi stessi, di conseguenza vogliamo agire come i reali timonieri di essa e non permettere che assomigli ad una casualità priva di pensieroE’ così provinciale obbligarsi a delle opinioni che, qualche centinaio di metri più in là già cessano di obbligareAl mondo vi è un’unica via che nessuno oltre a te può fare: dove porta? Non domandare, seguila” [3].
II, 40, 3
Conosciamo lucidamente gli aspetti terribili e quelli piacevoli della vita e non per questo ci tiriamo indietro dai pericoli ta; te deina; kai; hJdeva safevstata gignwvskonteÏ, kai; dia; tauÌ?ta mh; ajpotrepovmenoi ejk twÌ?n kinduvnwn” .
Viene in mente il dionisiaco e pure l’apollineo di Nietzsche
“Con il termine “dionisiaco” si esprime: un impulso verso l’unità, un dilagare al di fuori della persona, della vita quotidiana, della società, della realtà, come abisso dell’oblioun’estatica accettazione del carattere totale della vitala grande e panteistica partecipazione alla gioia e al dolore, che approva e santifica anche le qualità più terribili e problematiche della vita
Con il termine apollineo si esprime: l’impulso verso il perfetto essere per sé, verso l'”individuo” tipico, verso tutto ciò che semplifica, pone in rilievo, rende forte Lo sviluppo ulteriore dell’arte è legato all’antagonismo di queste due forze artistiche della natura così necessariamente come lo sviluppo ulteriore dell’umanità è legato all’antagonismo dei sessi. La pienezza della potenza e la moderazione, la più alta affermazione di sé in una bellezza fredda, aristocratica, ritrosa: l’apollinismo della volontà ellenica” [4].
Tucidide II, 40, 4
Siamo il contrario dei più anche per quanto riguarda l’ajrethv: infatti ci procuriamo gli amici non ricevendo il bene, ma facendolo ( ouj ga;r pavsconteÏ, eu , ajlla; drwÌ?nteÏ,).
Cfr. Edipo l’eroe della passività e Prometeo dell’attività (Nietzsche)
Chi fa del bene conserva cavrin, gratitudine, mentre chi lo riceve è lento a contraccambiare e teme di non potere farlo.
La cavriÏ, è un valore molto forte della cultura greca (cfr. Teognide, l’Eracle di Euripide dove Teseo dice “cavrin de; ghravskousan ejcqaivrw fivlwn” 1223.
Oppure il Giulio Cesare di Shakespeare: ” ingratitude more strong than traitor’s arms/quite vanquished him: then great Caesar fell” (III, 2)
O il Tito Andronico dove Tamora ex regina dei Goti dice a Saturnino di prendere tempo prima di annientare Tito che lo ha aiutato nell’ascesa al trono: rischierebbe troppo: “for ingratitude/which Rome reputes to be a heinous sin (I, 1), un peccato odioso.
II, 40, 5
Noi siamo i soli che portiamo aiuto a uno senza timore (ajdewÌ?Ï, tina; wjfelouÌ?men) non più per il calcolo dell’utile (ouj touÌ? xumfevrontoÏ, maÌ?llon logismwÌ?Ì?/) che per fiducia nella liberalità.
II, 41, 1
Riassumendo dico che l’intera città è scuola dell’Ellade (xunelwvn te levgw thvn te paÌ?san povlin thÌ?Ï, j EllavdoÏ, paivdeusin einai), una città dove ciascuno può conservare la propria persona indipendente a (to; swvma au[tarkeÏ,, una specie di habeas corpus) con la massima eleganza (meta; carivtwn malist j ) e con versatilità (eujtrapevlwÏ,) aperta a molti generi di formazione.
II, 42, 2
Questo non è un vanto di parole (ouJ lovgwn kovmpoÏ,) ma verità di fatti (e[rgwn ajlhvqeia). Lo dimostra la potenza stessa della città (aujth; hJ duvnamiÏ, povlewÏ, shmaivnei).
La ajlhvqeia, “non latenza” e la “non dimenticanza” dei fatti è la potenza della città.
II, 41, 3
La nostra è l’unica città che arriva alla prova più forte della fama -ajkohÌ?Ï, kreivsswn- e non viene biasimata né dai nemici né dai sudditi poiché non è mai indegna del suo ruolo.
Un ruolo di comando
Caratteristiche e doveri di chi comanda
Senofonte nella Ciropedia (I, 3, 1) sostiene che il capo di buona natura si distingue per la rapidità nell’apprendere e per l’eleganza e il coraggio con cui agisce.
Platone nella Repubblica fa dire a Socrate che un capo vero e genuino (“tw’/ o[nti ajlhqino;” a[rcwn”, 347d) deve cercare non il proprio utile, bensì quello dei governati.
Manzoni ne I Promessi Sposi afferma la persuasione “di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d’uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio ( XXII cap.).
Così in effetti aveva insegnato un discepolo di Zenone ad Antigono Gonata re di Macedonia (276-239) cui “il regnare apparve un “onorevole servire”, e[ndoxo” douleiva (Eliano, Var. hist. II 20)” [5].
Seneca nel De Clementia sostiene che la tanto celebrata felicità del principe consiste nel dare salvezza a molti, nel richiamare la vita dalla morte stessa e nel meritare la corona civica con la clemenza:”Felicitas illa multis salutem dare et vitam ab ipsa morte revocare et mereri clementia civicam “(III, 24, 5).
Tra i moderni, in E. Fromm troviamo una posizione simile a quella, già indicata, di Manzoni:”Il capo non è soltanto la persona tecnicamente più qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche l’uomo che è un esempio, che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che li serve. Obbedire a un cosiddetto capo senza queste qualità sarebbe viltà” [6].
Non proprio questo però era il ruolo di Atene nei confronti dei sudditi.
II, 41, 4. Siamo e saremo dai posteri senza avere bisogno né di un Omero elogiatore (oujde;n prosdeovmenoi ou[te JOmhvrou ejpainevtou) né di chiunque altro che diletterà con i versi sul momento ( ou[te o{stiÏ, e[pesi me;n to; aujtivka tevryei).
( Cfr. cfr to; mh; muqw’de” di I, 22, 4″ e la mancanza del favoloso di questi fatti , verosimilmente, apparirà meno piacevole all’ascolto”.-) e, subito dopo, “infatti come un possesso per l’eternità più che come declamazione da udire per il momento di una gara, essa è composta” .
La verità metterà nudo quanto è solo presunto e noi saremo ammirati per avere reso il mare e la terra accessibile (ejsbatovn) alla nostra audacia avendo edificato ovunque
II, 41, 5
Per una tale città dunque, perché non venisse loro tolta, i nostri concittadini morirono combattendo nobilmente gennaivwÏ, ,
II, 42,1
Mi sono dilungato per insegnarvi -didaskalivan te poiouvmenoÏ,- che il nostro agone per una tale città non è lo stesso che hanno altri. Componente didascalica e agonistica.
Nietzsche scrive:”Indizi di una natura aristocratica: non degradare mai i propri doveri, pensando che siano i doveri di tutti; non voler rinunciare mai alla propria responsabilità e non volere dividerla con nessuno”[7].
II, 42, 2
Il valore dei morti ha reso belle le mie parole. Il discorso corrisponde ai fatti.
II, 42, 3
Quei morti possono avere compiuto anche azioni meno belle ma hanno fatto sparire il male con il bene recando pubblico vantaggio più di quanto abbiano danneggiato con i loro vizi privati
II, 42, 4
Nessuno di loro si rammollì (ejmalakivsqh) godendo della ricchezza, né rimandò il pericolo, ma stimò questo cimento il più nobile dei rischi (kinduvnon kavlliston) .
Preferirono soffrire che salvarsi cedendo (h] ejndovnteÏ, sw/vzesqai) e nella brevissima occasione offerta dal destino se ne andarono al colmo della gloria.
Vediamo qui l’ideale eroico del non cedere (Achille nell’Iliade, Callino e Tirteo (VII secolo). Il guerriero piantato in prima fila è xuno;n ejsqlovn, un bene comune per la città e il popolo. Muore combattendo in prima fila con i piedi ben fissati al suolo e mordendo il labbro con i denti ceiÌ?loÏ, ojdouÌ?si dakwvn (Tirteo, fr. 10 W. 32)
Pindaro nell’Olimpica I scrive oJ mevgaÏ, de; kivndunoÏ, a[nalkin ouj fwÌ?ta lambavnei (vv. 82-83)
L’Achilleide di Stazio racconta l’educazione del Pelide da parte di Chitone che spingeva il ragazzo a battere nella corsa i cervi veloci e i cavalli dei Lapiti (II, 111-113)
L’eroe non cede (Achille in Iliade XIX, 423 ouj lhvxw, non cederò) e Pericle nel terzo discorso della fine estate del 430 dice che Atene ha grandissima rinomanza tra gli uomini dia; to; taiÌ?Ï, xumforaiÌ?Ï, mh; ei[kein, (II, 64, 3) per il fatto che non cede alle disgrazie.
Platone nel Fedro dice che hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche quelli che fanno prevalere la parte migliore dell’anima: l’auriga aiutata dal cavallo bianco.
Ma Leopardi nello Zibaldone sostiene che “l’eroismo e la perfezione sono cose contraddittorie. Ogni eroe è imperfetto” (471). Enea è meno bello di Achille.
II, 43, 1
Questi caduti furono tali da convenire alla città (proshkovntwÏ, thÌ?/ povlei ejgevnonto)
Le hanno dato un vantaggio. I vivi devono seguire il loro esempio
II, 43, 2
Dando la loro vita per il bene comune hanno ricevuto una lode che non invecchia (ajghvrwn e[painon ejlavmbanon) e una tomba dove la gloria rimane indimenticabile.
Nell’Eracle di Euripide, il Coro dei vecchi Tebani dice: il valore delle imprese nobili è l’ornamento dei morti (“gennaivwn d j ajretai; povnwn toiÌ?Ï, qanouÌ?sin a[galma” (357-358)
La loro tomba è un’ara, come quella dei caduti alle Termopili cantati da Simonide (bwmo;~ d j oJ tavfo~, fr. 26 P., v. 3) che riaffiora nella Canzone all’Italia di Leopardi (“La vostra tomba è un’ara” , v. 125)
II, 43, 3
Ogni terra è tomba degli uomini insigni il cui ricordo aleggia ovunque.
II, 43, 4
Considerate felicità la libertà e la libertà coraggio e non abbiate paura della guerra.
Felicità è la coincidenza tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto. L’infelicità è lo squilibrio tra la potenza e l’atto.
II, 43, 5-6
Più dolorosa della morte è la sventura con la debolezza morale.
II 44, 1
Morire può coincidere con essere felici. Quei morti hanno compiuto la vita felicemente.
Cfr. La sapienza silenica
II, 44, 2-3-4
I genitori dei morti devono consolarsi pensando alla gloria. I più giovani possono avere la speranza di altri figli. La gloria non invecchia ed essere onorati è il guadagno più grande
II 45, 1-2
I morti hanno lasciato un grande esempio e una grande gara ai figli e ai fratelli (oJrwÌ? mevgan to;n ajgwÌ?na)
Il vanto delle donne sarà non essere inferiori alla loro natura, e buona sarà la reputazione di quella la cui rinomanza in lode o biasimo sarà minima tra gli uomini.
II, 46, 1-2
I sepolti sono stati onorati e i loro figli saranno mantenuti a spese pubbliche. Ora che avete pianto abbastanza, andate a casa.
II, 47, 1
Tale discorso cadde nell’inverno (431-430) e passato questo finiva il primo anno di guerra.
Ultimo discorso di Pericle (II. 60-64) e giudizio di Tucidide sull’uomo
Nel 430 ci fu la seconda invasione dell’Attica da parte di Archidamo e la peste,
Pericle ricorda di essere filovpoliÏ, te kai; crhmavtwn kreivsswn (II, 60, 5) amante della città e superiore al denaro.
Un’identità che non cambia, mentre talora muta quella del popolo.
Dovete imparare a non cedere alle disgrazie (taiÌ?Ï, xumforaiÌ?Ï, mh; ei[kein)
Tucidide apprezza Pericle: la sua provnoia, gli faceva prevedere che bisognava curarsi della flotta e non correre rischi (II, 65, 6-7).
Nella veduta tucididea la politica è l’arte della previsione.
Dopo la sua morte, gli Ateniesi vennero fuorviati dai demagoghi
Tucidide fa l’elogio finale di Pericle dicendo lo statista, per il fatto di essere chiaramente e assolutamente incorruttibile dal denaro (crhmavtwn te diafanw’~ ajdwrovtato~ [8] genovmeno~ , II, 65, 8) , teneva in pugno la massa lasciandola libera (“katei’ce to; plh’qo” ejleuqevrw””).
“plh`qo~ sono i cittadini che formano la massa dell’assemblea popolare, la parte più “democratica” del popolo, in contrapposizione con correnti più conservatrici o anche oligarchiche” [9].
Confronto tra Pericle e Alcibiade che non realizzò i piani del suo predecessore.
Verso la fine delle Storie di Tucidide si legge che Alcibiade, quando (nel 411) la flotta di Samo si accingeva a navigare contro Atene, fermò i marinai nel momento in cui nessun altro sarebbe stato capace di trattenere la folla:”kai; ejn tw’/ tovte a[llo” me;n oujd j a]n ei~ iJkano;” ejgevneto katascei’n to;n o[clon”(VIII, 86, 5); egli però fu responsabile dell’impresa fallimentare di Sicilia che, a giudizio di Tucidide, fu “peggio di qualsiasi delitto; fu un errore politico o meglio una serie d’errori” [10].
Sulla vita privata non irreprensibile di Alcibiade, Tucidide afferma che aveva desideri troppo grandi rispetto alle sue ricchezze, sia per l’allevamento di cavalli sia per le altre spese:” ejpiqumivai” meivzosin h] kata; th;n uJpavrcousan oujsivan ejcrh’to e[” te ta;” iJppotrofiva” kai; ta;” a[lla” dapavna””(VI 15, 3); e, per questo essendo criticabile, non poteva permettersi a lungo l’arroganza con cui diceva:”Kai; proshvkei moi ma’llon eJtevrwn, w jAqhnai’oi, a[rcein”(VI 16, 1), spetta a me Ateniesi, più che ad altri comandare.
Pericle poteva contrastare il dh’mo” fino a spingerlo all’ira (kai; pro;” ojrghvn, II, 65, 8) poiché era inattaccabile nelle questioni di denaro:”ciò gli dava l’autorità di dire al popolo la verità, anziché piaggiarlo. Egli ebbe sempre le redini in pugno: se la moltitudine voleva romper la cavezza, egli sapeva imporlesi e intimidirla; se era abbattuta, sapeva rianimarla. Così Atene sotto di lui, “non era più una democrazia che di nome, ma in realtà era l’imperio del primo uomo” [11].
Tucidide usa un’espressione ( ” ejgivgnetov te lovgw/ me;n dhmokrativa, e[rgw/ de; uJpo; tou’ prwvtou ajndro;” ajrchv”, II, 65, 9) per la quale Jaeger nota che “la teoria filosofica posteriore, della costituzione mista quale ottima forma di Stato, è qui anticipata da Tucidide. La “democrazia” ateniese non è per lui la realizzazione di quell’esteriore eguaglianza meccanica che gli uni esaltano quale apice della giustizia, gli altri condannano quale suo opposto” [12].
La democrazia ateniese del tempo di Pericle, nel discorso epitafico di Aspasia riferito da Socrate nel Menesseno di Platone è un’aristocrazia con il consenso della massa: “met j eujdoxiva~ plhvqou~ ajristokrativa” (238d).
E’quello che Canfora chiama ” Il meccanismo della circolarità masse-capi.Il demo crede di imporre il proprio volere ma è il capo che lo pilota, anche attraverso i “retori minori” Quella circolarità riemerge, sulla scala dei millenni, ogni volta che un moto di popolo, un ridestarsi del “popolo” , prende corpo e dà forma a uno Stato” [13].
Alexis De Tocqueville nota che “Atene, con il suo suffragio universale, non era dunque, dopotutto, che una repubblica aistocratica in cui tutti i nobili avevano eguale diritto di governo” [14]. Era insomma una aristocrazia democratica, e, per certi versi, socialista.
“Pericle è considerato in particolare come colui che “reggeva saldamente la folla, pur nella libertà, e la guidava più di quanto non fosse da essa guidato” (II 65, 8), colui che aveva trasformato, quasi insensibilmente e senza pregiudizio alcuno per i cittadini, la democrazia vigente ad Atene in una sorta di regime personale: “a parole si trattava dunque di una democrazia, ma in realtà del governo del primo cittadino” (II 65, 9). Approvare in pieno e con entusiasmo la politica periclea, per un ateniese del tempo di Tucidide, significava sostanzialmente accettare le due realtà che ne costituivano le emanazioni più dirette: il regime democratico e l’impero. Qualche riserva, tuttavia, Tucidide esprime sia sulla politeia democratica, sia sul ruolo imperiale della città. Per quanto riguarda la democrazia, la questione è abbastanza semplice: lo storico manifesta con insistenza giudizi negativi e talvolta vero e proprio disprezzo nei confronti delle masse, che gli appaiono incompetenti, incostanti e volubili (cfr. II 65, 4; IV 28, 3; VIII 97, 2); di conseguenza, la sua adesione ad un regime che prevedeva e consentiva di fatto la partecipazione di tutti i cittadini al governo dello Stato era necessariamente subordinata alla esistenza di una qualche forma di controllo delle forze popolari. Uno dei grandi meriti di Pericle era stato appunto quello di avere esercitato una funzione di controllo sulla massa.
Il giudizio espresso a proposito del governo dei Cinquemila instaurato nel 411 a. C. costituisce un preciso riscontro a questa interpretazione della posizione politica di Tucidide: “allora per la prima volta, almeno per quanto riguarda i miei tempi, gli Ateniesi risultarono retti da un governo assai buono. Si ebbe, infatti, una moderata combinazione fra gli oligarchici e la massa e ciò contribuì più di ogni altra cosa a sollevare la città da una situazione che era diventata brutta” (VIII 97, 2).
Morto Pericle , vennero alla ribalta personaggi che non solo non erano in grado di esercitare alcuna funzione di controllo, ma subivano anche forti condizionamenti dalla massa ed erano più inclini a compiacerla per soddisfare le ambizioni personali che a contrastarla per salvaguardare i superiori e generali interessi dello Stato (II 65, 10).
” Soltanto un regime di democrazia moderata o di oligarchia allargata, che comportava l’estromissione dalla vita politica di una parte consistente della cittadinanza sulla base dell’assenza della necessaria qualificazione censitaria, poteva incontrare l’approvazione e il plauso di Tucidide” [15].
La guerra dunque fu persa per la mancanza di un uomo simile, il vero capo nell’antico senso solonico, mentre i suoi successori commisero una serie di sbagli, soprattutto quello di fare la spedizione in Sicilia:” hJmarthvqh kai; oJ ej” Sikelivan plou'””(II 65, 11) senza avere assegnato a chi partiva i mezzi sufficienti. Per giunta seguirono calunnie e discordie tra gli Ateniesi. Eppure, dopo la catastrofe siciliana, Atene resistette per dieci anni ai tanti nemici, a quelli di prima, e a quelli che si aggiunsero in seguito alla sconfitta, compreso il figlio del re di Persia, Ciro:” o}” parei’ce crhvmata Peloponnhsivoi” ej” to; nautikovn” (Tucidide, II 65, 12) il quale forniva ai Peloponnesiaci il denaro per la flotta, fatto che segnò la fine della guerra e, dal punto di vista della letteratura, che è il nostro, provocò la chiamata a raccolta di tutte le energie contro i Persiani da parte di Euripide nell’Ifigenia in Aulide in particolare, quando la ragazza proclama la necessità della guerra santa contro i barbari di Oriente (vv. 1397-1401 che vedremo più avanti).
(Esporrò questo percorso il 24 giugno alle 18, 30, a Bologna, in piazza Verdi)
Giovanni Ghiselli
note:
[1] Quello che rifiutava i classici. Evidentemente glieli facevano male.
[2] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, p. 668. Cito spesso questo romanzo, tante volte quante l’Odissea, o quasi. Mi conforta in questa scelta l’amico Piero Boitani: “Per il mio compleanno, sul finire di quell’anno 1’anno 1968 mi feci regalare da una coppia di amici l’Odissea greca nell’edizione oxoniense dell’Allen: la conservo ancora, naturalmente, con il loro biglietto di auguri per segnalibro. Da allora, e per almeno dieci anni, ho riletto il poema, nell’originale e in traduzione italiana o inglese, ogni anno: insieme ai Fratelli Karamazov, era il mio libro-e lo è rimasto” (P. Boitani, L’ombra di Ulisse, p. 45).
[3] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III (1874), Schopenhauer come educatore, p 167.
[4] F. Nietzsche, Frammenti postumi, Primavera 1888-14, p. 216.
[5] Pohlenz, La Stoa , p. 33.
[6] Psicanalisi Della Società Contemporanea , p. 299.
[7] Di là dal bene e dal male , Che cosa è aristocratico, 272
[8] Si pensi ai basilh’~ dwrofavgoi, i re divoratori di doni, cui Esiodo chiede di raddrizzare i giudizi (Opere, 263-264).
[9] Avezzù, Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 216.
[10] Jaeger, Paideia , I vol., p. 677.
[11] Jaeger, op. cit., p. 680.
[12] Op. cit. p. 684. La costituzione è un nutrimento di uomini (trofh; ajnqrwvpwn), di persone buone, se è buona, di individui malvagi se è cattiva.
Quella ateniese ha nutrito uomini di valore.
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Essa non esclude nessuno per debolezza sociale, né per povertà, né per oscurità dei padri; e neppure preferisce alcuno per i motivi contrari. I medesimi pregi vengono attribuiti alla “sua” democrazia dallo stesso Pericle nel discorso che gli attribuisce Tucidide in Storie II 35 sgg. quando lo stratego fa l’encomio dei caduti nel primo anno di guerra e l’elogio di Atene, la scuola dell’Ellade (II, 41)
[13] Luciano Canfora, Legge o natura? In NOMOS BASILEUS, p. 59
[14] La democrazia in America, p. 479
[15] Mauro Moggi, Op. cit., p. 2303-2304.
Filosofia del liberalismo
- Tocqueville di Diego Fusaro
- Tocqueville, Alexis Charles Henri Clérel de da lafrusta
- Articoli di Tocqueville, Alexis de su La rivoluzione liberale di Piero Gobetti
Audio Lezioni di Storia moderna e contemporanea del prof. Gaudio
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