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Forse vero non è; ma un giorno è
fama,
Che fur gli uomini eguali; e ignoti nomi
Fur Plebe, e Nobiltade. Al cibo, al
bere,
All’accoppiarsi d’ambo i sessi, al sonno
Un istinto medesmo, un’egual forza
Sospingeva gli umani: e niun consiglio
Niuna scelta d’obbietti o lochi o tempi
Era lor conceduta. A un rivo stesso,
A un medesimo frutto, a una stess’ombra
Convenivano insieme i primi padri
Del tuo sangue, o Signore, e i primi
padri
De la plebe spregiata. I medesm’antri
Il medesimo suolo offrieno loro
Il riposo, e l’albergo; e a le lor
membra
I medesmi animai le irsute vesti.
Sol’ una cura a tutti era comune
Di sfuggire il dolore, e ignota cosa
Era il desire agli uman petti ancora.
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Lo
stato di natura. All’inizio tutti gli uomini erano uguali, e non
esistevano le definizioni di Plebe e di Nobiltà;
– uguale
era il per tutti l’istinto di mangiare, bere e accoppiarsi;
– a
nessuno era lasciata facoltà di scegliere ciò che preferivano, perché
ciascuno mangiava ciò di cui aveva bisogno;
– tutti
bevevano ad un medesimo fiume, sedevano alla stessa ombra: sia i
progenitori del nobile giovin signore, sia quelli della spregevole
plebe;
–
riposavano nelle stesse caverne;
–
vestivano delle stesse pelli di animali;
– tutti
inoltre aveva un’unica occupazione comune: sfuggire al dolore;
– il
desiderio era ignoto;
(questa
rappresentazione fa venire in mente vico)
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L’uniforme degli uomini sembianza
Spiacque a’ celesti: e a varïar la terra
Fu spedito il Piacer. Quale già i numi
D’Il’io sui campi, tal l’amico genio,
Lieve lieve per l’aere labendo
S’avvicina a la terra; e questa ride
Di riso ancor non conosciuto. Ei move,
E l’aura estiva del cadente rivo,
E dei clivi odorosi a lui blandisce
Le vaghe membra, e lentamente sdrucciola
Sul tondeggiar dei muscoli gentile.
Gli s’aggiran d’intorno i Vezzi e i
Giochi,
E come ambrosia, le lusinghe scorrongli
Da le fraghe del labbro: e da le luci
Socchiuse, languidette, umide fuori
Di tremulo fulgore escon scintille
Ond’arde l’aere che scendendo ei varca.
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La
raffigurazione del Piacere. Ma l’uniforme condizione degli uomini
spiacque agli dei:
– che ad
introdurre un elemento di variazione inviarono sulla terra il piacere.
– come
gli dei scendevano nei campi di Troia, così questo genio si fece largo
sulla terra;
– il
piacere si avvicina alla terra, e viene carezzato in ogni parte del suo
corpo dall’aria;
– è
accompagnato da divinità minori: i Vezzi e i Giochi;
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Alfin sul dorso tuo sentisti, o
Terra,
Sua prim’orma stamparsi; e tosto un
lento
Fremere soavissimo si sparse
Di cosa in cosa; e ognor crescendo,
tutte
Di natura le viscere commosse:
Come nell’arsa state il tuono s’ode
Che di lontano mormorando viene;
E col profondo suon di monte in monte
Sorge; e la valle, e la foresta intorno
Mugon del fragoroso alto rimbombo,
Finché poi cade la feconda pioggia
Che gli uomini e le fere e i fiori e
l’erbe
Ravviva riconforta allegra e abbella.
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La
reazione della terra. Infine il Piacere appoggia il piede sulla
terra, che avverte la sua presenza per la prima volta, provando un
brivido di eccitazione;
– come
un fresco temporale estivo rigenera la natura sconvolta dal calore;
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Oh beati tra gli altri, oh cari al cielo
Viventi a cui con miglior man Titáno
Formò gli organi illustri, e meglio
tese,
E di fluido agilissimo inondolli!
Voi l’ignoto solletico sentiste
Del celeste motore. In voi ben tosto
Le voglie fermentár, nacque il desio.
Voi primieri scopriste il buono, il
meglio;
E con foga dolcissima correste
A possederli. Allor quel de’ due sessi,
Che necessario in prima era soltanto,
D’amabile, e di bello il nome ottenne.
Al giudizio di Paride voi deste
Il primo esempio: tra feminei volti
A distinguer s’apprese; e voi sentiste
Primamente le grazie. A voi tra mille
Sapor fur noti i più soavi: allora
Fu il vin preposto all’onda; e il vin
s’elesse
Figlio de’ tralci più riarsi, e posti
A più fervido sol, ne’ più sublimi
Colli dove più zolfo il suolo impingua.
Così l’Uom si divise: e fu il Signore
Dai volgari distinto a cui nel seno
Troppo languir l’ebeti fibre, inette
A rimbalzar sotto i soavi colpi
De la nova cagione onde fur tocche:
E quasi bovi, al suol curvati ancora
Dinanzi al pungol del bisogno andáro;
E tra la servitute, e la viltade,
E ‘l travaglio, e l’inopia a viver nati,
Ebber nome di Plebe.
Or tu Signore
Che feltrato per mille invitte reni
Sangue racchiudi, poiché in altra etade
Arte, forza, o fortuna i padri tuoi
Grandi rendette, poiché il tempo alfine
Lor divisi tesori in te raccolse,
Del tuo senso gioisci, a te dai numi
Concessa parte: e l’umil vulgo intanto
Dell’industria donato, ora ministri
A te i piaceri tuoi nato a recarli
Su la mensa real, non a gioirne.
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Le
razioni degli uomini. Tra gli uomini, quelli che ebbero più fortuna
furono quelli a cui il titano prometeo formò sensi più ricettivi e
delicati;
– questi
sentirono il primo solletico del piacere;
– in
loro per primi nacque il desiderio;
– loro
scoprirono le differenze tra le cose, e impararono a distinguere le cose
buone e quelle migliori;
–
allora, il sesso femminile, che prima di allora era destinato solo alla
procreazione, fu definito «bello»;
– un
esempio di ciò fu il giudizio di Paride;
– quei
primi uomini, i progenitori degli attuali nobili, distinsero per la
prima volta i sapori più dolci;
– fu
scoperto il vino;
– e dei
vari vini si scoprì come produrre il migliore;
La
plebe. Così l’uomo si divise:
– i
nobili furono distinti dai volgari individui a cui erano rimaste fibre
insensibili, incapaci di reagire agli stimoli del piacere;
– questi
lavorano curvi come buoi;
– questi
ebbero il nome di Plebe: nati per vivere in schiavitù, umiliazioni,
fatiche, e povertà;
Il giovin
signore deve quindi rallegrarsi di tutto questo.
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