Seconda guerra mondiale
27 Gennaio 2019Paul Verlaine di Carlo Zacco
27 Gennaio 2019di Carlo Zacco
Clemente Rebora (1885 – 1957)
I poeti della «voce»
La voce. La cosiddetta «nuova poesia» nasce in Italia in opposizione ai grandi sistemi poetici che a loro modo hanno creato autori come Carducci, Pascoli, D’annunzio e parte fondamentalmente da due esigenze: a) una di ordine esistenziale, e uno sforzo di testimonianza e di ricerca di una verità autobiografica; b) uno stilistico, la ricerca cioè di una musicalità nuova, disposta ad oltrepassare anche i confini della dissonanza. Un primo sforzo in questa direzione è compiuto dalla rivista fiorentina «La voce» e dai poeti che vi scrivono: la rivista è guidata da Prezzolini e poi da De Robertis; rivista attenta alla realtà politica del tempo e che propone una poesia come luogo di espressione delle ansie e delle aspirazioni insopprimibili, del singolo e della società. Rebora e Campana scrivono su La voce.
O carro vuoto, in Frammenti lirici, 1913
Linguaggio. , perché il discorso poetico di questa raccolta riflette la visione che il poeta ha della realtà, dunque non una visione stabile, ma che fatica a risolversi in un discorso di ampio respiro.
Prima delle immagini colpisce il linguaggio ruvido, con suoni forti, ripetizioni di suono sì, ma usate per ribattere un concetto appena detto, in un modo che non ha nulla a che vedere con la dolcezza della rima; l’intento è espressionistico: il linguaggio è usato in modo violento, che vuole colpire più che accarezzare l’orecchio.
Cielo e terra. Il carro vuoto rappresenta il poeta stesso e la sua inerzia che non gli consente di allontanarsi, di partire, ma lo rende schiavo di qualcos’altro, che è la macchina. C’è uno scontro tra due immagini diverse: da un lato abbiamo il carro che rappresenta una vita di inerzia, passività, impotenza (il carro è aggiogato, trascinato, incatenato); dall’altro c’è l’ambiente naturale, che è presentato come una possibile via di fuga, di liberazione: il cielo è balzàno, cioè imprevedibile, capriccioso, rappresenta una possibilità di riscatto dalla schiavitù in cui sono costretti gli uomini; la terra, un termine astratto usato per intendere gli uomini sanguina invano, cioè si lascia prendere dalla false immagini di bene”.
Espressionismo. Questo scontro tra due realtà opposte, cielo e terra, è reso tramite un uso espressionistico del linguaggio, abbiamo infatti:
– aspre allitterazioni: merce rude d’urti; trabalzante stridere di freni; trascinato tramandi;
– rime difficili: tonfi, gonfi;
– rime ricche: inespresse, oppresse;
– termini fortemente connotati: ràntoli, fumida, gravido;
– accostamenti verbo-complemento inusuali: sguinzaglia l’eterno; pertugia l’esteso;
Dall’immagine tesa, in Canti anonimi, 1922
Mt, 25: 13: vigilate itaque quia nesc?tis diem neque horam; Lc, 21:36: vigilate itaque omni tempore orantes;
Clemente Rebora è paragonabile a Hopkins, anche biograficamente poiché entrambi troveranno una soluzione al loro dissidio esistenziale nella religione; Rebora dal 1924 verrà ordinato sacerdote.
In questa poesia la tensione quasi implacabile che era caratteristica del testo precedente, pare prossima a sciogliersi nella rivelazione; c’è un senso di estenuante attesa: non si sa che cosa si attende, quello che conta è sempre l’attesa (motivo storico), e tutto in questa poesia si risolve nella speranza di liberazione, di redenzione. La tensione si identifica con l’attesa: si attende pur sapendo che nessuno arriverà; le pareti sono vuote, non c’è nessuna immagine da contemplare poiché è l’attesa che riempie tutto.