Giovanni Ghiselli: professore di greco e latino
27 Gennaio 2019Giusy
27 Gennaio 2019dal Percorso sull’amore nei classici
di Giovanni Ghiselli
Schema concettuale:
La sposa e l’amante infelice.
Deianira: la ragazza ossessionata dai mostri.
Sofocle e Ovidio.
L’assimilazione della donna alla terra .
Il tovpo” del paragone tra l’essere umano desolato e l’uccello dolente.
Il correlativo oggettivo.
Makarismov” degli uccelli. Aristofane e Leopardi.
Antigone, la sposa e madre mancata per ragioni politiche.
L’uomo desolato e dolente come l’usignolo: Orfeo della IV Georgica e il poeta elegiaco. Di nuovo la donna abbandonata:Tess di T. Hardy.
La violenza: il mito di Procne, Filomela, Tereo. Il metodo mitico.
La rondine come segno ambiguo.
Il Pervigilium Veneris . Macbeth e Petrarca.
Il motivo della paura. L’uomo ( il tiranno, Creonte) teme di perdere il potere; la donna (Deianira) il marito.
L’amante ingannata e abbandonata, la sposa mancata per la malafede dell’amante perfido: Arianna e Teseo. Medea e Giasone nelle Argonautiche di Apollonio Rodio.
La fides : Catullo, Cicerone, Livio. Fides e foedus
Fides come fundamentum iustitiae e firmamentum stabilitatis.
La fides come valore della repubblica romana. Il Camillo di Tito Livio.
La fides eterna: Properzio, il servitium, Petrarca e Florentino Aziza in L’amore ai tempi del colera di Màrquez.
L’amicitia amorosa per Catullo e Ovidio.
Rompere la fede non porta bene. Teseo ne paga il fio. Anche Arianna però non è schietta. L’inaffidabilità riguarda tanto gli uomini quanto le donne. Sofocle, Callimaco e Ariosto.
Ovidio è più comprensivo con i tradimenti femminili.
L’aspetto degli uomini e delle donne.
Il valore e la forza, anche fuorviante, della bellezza fisica. La potenza politica, e seduttiva, della parola. La giustificazione estetica dell’esistenza umana (Nietzsche)
La Medea di Euripide e Nastasja Filippovna dell’Idiota di Dostoevskij: fantastiche donne oltraggiate. La Medea cinematografica di Pasolini. Contrasto tra la cultura “razionale e pragmatica” di Giasone e quella “arcaica , ieratica, clericale” della barbara.
La donna come ” la creatura più sofferente” (Medea, v. 231).
La dote. Culture e usi diversi. A proposito di tolleranza: Erodoto e un aspetto strano del costume babilonese (I, 196). La dote secondo l’antifemminismo di Ippolito. La mentalità agonistica dei Greci. Le due Erides. I giochi sono spettacoli e feste religiose. Difficoltà del divorzio. Contrasto di culture.
Il letto nell’Alcesti e nella Medea . Levco”/lovco”. L’amore come rete. La stessa offesa viene presa in maniera diversa dala moglie di Candaule e dalla Griselda di Boccaccio.
Cacciari: la donna è fatalmente legata alla famiglia e al focolare della casa. Medea preferisce la guerra al parto ma gli autori maschi maledicono Ares.
La Medea di Seneca. La difesa dell’identità. Eliot: Medea superest e I am Antony yet. Le nozze auspicate nelle Argonautiche e quelle realizzate male. Amor timere neminem verus potest (Medea, 416). La transvalutazione lessicale. La Medea di Christa Wolf e Lady Macbeth.
L’incoercibile istinto della donna. Ghismunda di Boccaccio, Joyce e Weininger. I ragionamenti spesso non sono altro che sentimenti travestiti.
La Necessità nella Medea e nell’Alcesti. Del Corno e Cacciari.
La donna offesa da un uomo adulto può diventare una belva con i bambini: Medea, Idotea in Sofocle e Procne in Ovidio.
La parola “madre” si capovolge e da rassicurante diviene la più inquietante. Le Coefore di Eschilo e il Faust di Goethe.
Joyce, Shakespeare, Seneca e l’annientamento dei rapporti familiari .
Medea e il dolore dell’identità minacciata. Importanza della reputazione nella “Civiltà di vergogna”. La noncuranza del parere dei più nella Civiltà della colpa (Socrate e Ibsen).
Il carattere tirannico della donna barbara. Non si può certificare la felicità dell’uomo per l’imprevedibilità della vita umana. La tragedia, la storiografia e le twin towers di New York.
Galimberti e l’angoscia dell’imprevedibile.
Medea reagisce come un eroe omerico o sofocleo
Il disonore del letto e l’orrore della derisione. La dimensione eroica e arcaica di Medea. Il dramma greco spezza la routine e presenta l’uomo come problema.
Nelle Trachinie di Sofocle (databili fra il 438 e il 429) la moglie infelice è Deianira, la sposa dell’infedele Eracle. Sin da ragazza, quando abitava con il padre, ebbe una dolorosissima paura delle nozze (v. 7-8). Infatti ricorda:”Mnhsth;r ga;r hn moi potamov”, jAcelw’/on levgw” (v. 9), il mio pretendente era un fiume, dico l’Acheloo. Insomma era corteggiata da un mostro.
E’ vero che Acheloo avrebbe potuto pensare, come Lucio, trasformato in asino e in procinto di avere un rapporto sessuale con una donna, di non essere comunque peggiore del ganzo di Pasife[1], ma questa ragazza di Sofocle non gradiva tal genere di amanti, e forse avrebbe considerato il Minotauro, il mostro , “conceptum crimine matris/semibovemque virum semivirumque bovem“[2], concepito dal crimine della madre, ossia Pasife, l’uomo semibove e il bove semiuomo, al pari di Virgilio “Veneris monimenta nefandae “, (Eneide , VI, 26), ricordo di una Venere infame.
“Creatura mostruosa, quel Minotauro, dalla doppia natura di uomo e di animale: mostruosa soprattutto perché frutto di un’unione adulterina, di una colpevole mescolanza di due semi maschili in un solo utero. Questo era, nell’orizzonte della cultura arcaica, la sorte della donna che tradiva il patto coniugale: generare un obbrobrio vivente”[3].
Ma torniamo a Deianira e sentiamo sentiamo U. Albini: “Deianira appartiene ancora, in qualche modo, al regno dei mostri: è stata richiesta in sposa da uno di essi, desiderata da un altro[4], che l’ha toccata, che si confida con lei e ne fa una sua complice. E nella lotta contro Acheloo, Eracle ha fattezze ferine (v. 517 ss.). Da questo bestiario, che ha conservato in sé come orrore e come fremito, Deianira non potrà uscire”[5]. La lotta da cui Eracle esce vincente è un fragore di mani, di archi di corna taurine insieme confuse (Trachinie , 517-518).
Sullo stesso argomento sentiamo anche A. Maddalena:”La sua angoscia non è soltanto d’ora; è di sempre: ha sofferto prima delle nozze quando viveva nella casa del padre; ha sofferto dopo le nozze, vivendo nella casa dello sposo; e soprattutto soffre ora, mentre, esiliato Eracle dalla sua patria, essa vive ospite nella città di Trachis, in disperata attesa dello sposo lontano. Deianira, ripercorrendo, nel momento dell’incomparabile angoscia presente, il corso tutto della sua vita, rivive, insieme con la presente, anche le angosce passate: rivive e racconta…Le sue nozze erano bramate da un dio, ch’era anche un mostro: e a quel dio né lei né il padre potevano resistere; ma il pensiero delle nozze con quel mostro era più doloroso della stessa morte. Era un fiume l’Acheloo, colui che la voleva in sposa: e in tre forme diverse si presentava al padre suo, a volte di toro, a volte di screziato drago strisciante, a volte con corpo d’uomo; ma anche allora il suo aspetto era ripugnante, perché sul corpo umano si ergeva una testa bovina, e dal mento barbuto della testa bovina scorrevano fonti d’acqua sorgiva. Meglio, davvero, la morte di quelle nozze!”[6].
La Deianira delle Heroides [7] di Ovidio, lontana da Eracle occupato a inseguire terribili fiere, e altre donne, è ossessionata dal pensiero dei mostri con i quali il marito deve lottare:”inter serpentes aprosque avidosque leones/iactor et haesuros terna per ora canes ” (IX, 39-40), mi aggiro tra serpenti e cinghiali e leoni bramosi, e cani[8] pronti ad attaccarsi con tre bocche.
Senza contare gli amori con le straniere:” peregrinos addis amores “(v. 49)
All’inizio del dramma di Sofocle, la moglie lasciata sola per quindici mesi lamenta l’assenteismo coniugale di Eracle il quale, come eroe, è impegnatissimo, ma come marito si comporta alla pari di un colono che, avendo preso un campo lontano (a[rouran e[ktopon labwvn, v. 32) va a vederlo solo un paio di volte all’anno, una quando semina e una quando miete:”speivrwn movnon prosei’de kajxamw’n[9] a{pax,”, (v.33).
Pure Eracle dunque è stato un pretendente mostro poiché ha dimenticato Deianira.
Il mnhsthvr compiuto infatti deve essere dotato di memoria , mnhvmh , che deriva dalla stessa radice mnh-/mna , come pure mnavomai, penso, e quindi non può non pensare alla donna che corteggia, mentre l’eroe della stirpe dorica la utilizza come animale riproduttivo, anzi come terra arabile (a[roura).
A questo proposito è interessante un excursus sull ‘assimilazione della donna alla terra.
Mircea Eliade nel suo Trattato di storia delle religioni scrive:”L’assimilazione fra donna e solco arato, atto generatore e lavoro agricolo, è intuizione arcaica e molto diffusa” (p. 265). A sostegno di questa affermazione cita diversi testi, tra i quali l’Edipo re ( “pw'” poq& aiJ patrw’/aiv s& a[loke” fevrein, tavla”, si’g& ejdunavqhsan ej” tosonde;”, vv. 1211-1213, come mai i solchi paterni- ossia già seminati dal padre- poterono, infelice, sopportarti fino a tanto silenzio?), e i versi delle Trachinie (32-33) ricordati sopra.
Per quanto riguarda l’identificazione più precisa della donna con il solco, Eliade cita il Codice di Manu (IX,33) dove sta scritto:”La donna può essere considerata come un campo; il maschio come il seme”; inoltre un proverbio finlandese che fa:”Le ragazze hanno il campo nel loro corpo”. A queste testimonianze possono essere aggiunte altre, antiche e moderne, per mostrare quanto tale idea sia davvero diffusa nella mente umana, soprattutto in quella maschile.
Eschilo ne I sette a Tebe (vv.751 e sgg.) dice, riferendosi a Laio, che egli fece nascere il destino per sé, Edipo parricida, il quale a sua volta osò seminare il sacro solco della madre dove fu generato (matro;” aJgna;n-speivra” a[rouran, iJvn j ejtravfh), e la pazzia unì gli sposi dementi.
Tale assimilazione serve ad alcuni personaggi tragici per svalutare la figura materna.
Euripide nelle Fenicie (del 410) riprende, fecendo delle varianti, l’argomento della tragedia di Eschilo e ricorda, attraverso Giocasta, il responso di Febo che prescrisse a Laio:”mh; spei’re tevknwn a[loka daimovnwn biva/” (v. 18), non seminare il solco dei figli a dispetto degli dèi, e il suo Oreste (del 408) usa questo tovpo” per attenuare la colpa del matricidio: dice al nonno materno che il padre lo generò, mentre la madre non ha fatto che partorirlo: ella è stata solo il campo arato che ha preso il seme da un altro:”to; sperm& a[roura paralabous& a[llou pavra” (v. 553).
E’ la stessa ragione addotta da Apollo nelle Eumenidi (del 458) di Eschilo per minimizzare il delitto del matricida:”La cosiddetta madre non è la generatrice del figlio (tevknou tokeuv”)/ma la nutrice del feto appena seminato (trofo;” de; kuvmato” neospovrou)/ il maschio che la monta genera; quella è come un ospite con un ospite”(658-660).
La madre non è indispensabile continua Febo:”ne è qui testimone la figlia di Zeus Olimpio/la quale non venne nutrita nelle tenebre di un utero,/ma è come un virgulto che nessuna dea avrebbe potuto partorire”(664-666).
In questi tre versi si vede la paura dell’uomo per l’oscurità della donna che è poi la zona oscura di se stesso, la propria parte femminile.
Tra gli autori latini Lucrezio (94-50ca a. C.), forse sotto la scorta di Euripide[10] interpreta la “deum mater ” (II, 659), come la divinizzazione della terra[11]. Questa parentela stretta tra la femmina umana (o divina) e la terra, è messa in rilievo anche da non pochi autori moderni. Kierkegaard nel Diario del seduttore (1843) indica e sottolinea la vicinanza della ragazza alla natura:” ella è come un fiore, piace dire ai poeti, e perfino quel che in lei c’è di spirituale ha alcunché di vegetativo“(p.138) .
Su questa linea si trova anche J. J. Bachofen, l’autore di Das Mutterrecht [12] (1861), che vede nel matriarcato il prevalere del diritto naturale, e nel patriarcato di quello positivo, in quanto “la donna è la terra stessa. La donna è il principio materiale, l’uomo è il principio spirituale…Platone nel Menesseno (238a) dice-non è la terra a imitare la donna, ma la donna a imitare la terra-“.
Del resto non bisogna dimenticare che, se nel Menesseno Platone (427-347 a. C.) scrive (precisamente) :”ouj ga;r gh’ gunai’ka memivmhtai kuhvsei kai; gennhvsei (nella gravidanza e nel parto), ajlla; gunh; gh’n”, nel Menone il filosofo ateniese afferma che tutta la natura è imparentata con se stessa (th'” fuvsew” aJpavsh” suggenou'” ou[sh”, 81d) e, dunque, anche l’uomo è stretto parente della grande madre e della natura in genere.
Tant’è vero che Saffo (VII-VI sec. a. C.) in un frammento di epitalamio paragona lo sposo a un giovane ramo flessibile:”A chi, caro sposo, posso paragonarti bene?/A un ramoscello flessibile ti paragono benissimo” fr. 127D..
Tale tovpo”, espresso con qualche benevolenza verso le femmine umane dal filosofo danese e in maniera ambivalente, non priva di contraddizioni da Bachofen, assume aspetto malevolo, decisamente antifemminista in Otto Weininger, l’autore di Sesso e carattere, morto, forse non a caso, suicida nel 1903, a soli ventitré anni. Secondo lo scrittore austriaco ” le donne stanno incosciamente più vicine alla natura che non l’uomo. I fiori sono i loro fratelli“(p.293); e, più avanti (p.296), :”l’uomo è forma, la donna è materia…la materia vuole essere formata: perciò la donna pretende dall’uomo la delucidazione dei suoi pensieri confusi“.
Può sembrare offensiva questa idea della naturalezza della donna , eppure Odisseo elogia Nausicaa in modo da lei gradito dicendole:”Non ancora infatti una tale creatura io vidi con gli occhi/,né uomo né donna: venerazione mi prende a guardarti./Invero una volta a Delo presso l’altare di Apollo siffatto/ vidi alzarsi un nuovo virgulto di palma” (foivniko” nevon e[rno”, Odissea VI, vv. 160-163).
Si può continuare la rassegna, certo parziale e limitata, con un altro autore austriaco, uno dei massimi del Novecento, Robert Musil (1880-1942) che, ne L’uomo senza qualità , compie l’operazione inversa: assimila la terra alla donna. “Ulrich la trattenne e le mostrò il paesaggio.-Mille e mille anni fa questo era un ghiacciaio. Anche la terra non è con tutta l’anima quello che momentaneamente finge di essere-egli spiegò-. Questa creatura tondeggiante è di temperamento isterico. Oggi recita la parte della provvida madre borghese. A quei tempi invece era frigida e gelida come una ragazza maligna. E migliaia di anni prima si era comportata lascivamente, con foreste di felci arboree, paludi ardenti e animali diabolici”( p.279).
T. Hardy in Tess (1891) connette la donna al paganesimo per la sua naturalezza:”le donne, i cui principali compagni sono le forme e le forze della Natura esteriore, conservano nell’animo molta più parte della fantasia pagana dei remoti antenati che non della religione sistematizzata insegnata alla loro razza in epoca più tarda”[13].
Procedo citando D’Annunzio: in Il Piacere (1889) Andrea Sperelli dichiara che “fra i mesi neutri” aprile e settembre preferisce il secondo in quanto “più feminino…E la terra?-aggiunge- Non so perché, guardando un paese, di questo tempo, penso sempre a una una bella donna che abbia partorito e che si riposi in un letto bianco, sorridendo d’un sorriso attonito, pallido, inestinguibile. E’ un’impressione giusta! C’è qualche cosa dello stupore e della beatitudine puerperale in una campagna di settembre!”(p. 169).
Ne Il Fuoco (1890) l’amante non più giovane, la grande attrice tragica Foscarina, viene assimilata, tra l’altro, a “un campo che è stato mietuto“(p. 306).
Infine cito una poesia di Gabriel Zaid “poeta messicano della generazione del Trenta” che ho trovato nel Lunario dei giorni d’amore donatomi dalla donna splendidissima[14], amata nobis quantum amabitur nulla[15] con la dedica “Neanche un giorno di non amore”.
Voglio dire che è l’amore che fa leggere, che fa scrivere, oltre far andare in bicicletta e tutto il resto. E’ l’amore che fa vivere, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”[16]. Leggiamo dunque la poesia messicana L’offerta:” La mia amata è una terra che ripaga./ Non si perde mai quello che in lei si semina./Qualunque fede posta in lei fruttifica./Anche la minima parola in lei dà frutto./Tutto in lei s’adempie, tutto giunge all’estate./E’ carica di doni, prodiga e matura./Le sue labbra emanano una grazia che ripaga./I suoi occhi, il suo seno, i suoi atti, il suo silenzio./Le ho dato ciò che è suo, per questo me lo rende./E’ l’altare, la dea e il corpo dell’offerta”[17].
Per concludere: oggi è vitale per la sopravvivenza della specie umana che gli uomini sentano di essere tutti figli della grande madre terra.
Deianira, una volta contesa, poi abbandonata, è divenuta come un dolente uccello ( oi|av tin j a[ql’ion o[rnin, v. 105) e si consuma nel giaciglio tormentoso, privo dell’uomo (v. 110).
Il tovpo” del paragone tra l’essere umano desolato e l’uccello dolente.
La similitudine tra l’essere umano addolorato e l’uccello che lamenta la perdita delle sue creature è topico nella letteratura europea.
Vediamo alcuni versi dell’Antigone (422-425 ) nei quali la ragazza, che ha trovato nudo il cadavere di Polinice, viene paragonata per il suo lamento a un uccello “amareggiato:”E allontanatosi questo dopo lungo tempo,/si vede la ragazza, e alza l’acuto grido/di un uccello addolorato (pikra’”-o[rniqo”), come quando ha volto/ lo sguardo sul giaciglio del vuoto nido privo degli uccellini” .- “Questo” è riferito a un precedente (v. 418) tufwv” , un uragano che ha sollevato dalla terra una bufera, skhptovn, quale oujravnion a[co” , angoscia del cielo, una sorta di correlativo oggettivo della pena della fanciulla. Visto che ci siamo e che di questo sintagma estetico eliotiano si parla tanto a vanvera nelle scuole ne fornisco la formulazione di Pound, “il miglior fabbro” secondo l’autore di The Waste Land (1922).
Il maestro di Eliot dunque nel 1910 scriveva:”Poetry is a sort of inspired mathematics, which gives us equations, not for abstract figures, triangles, spheres, and the like, but equations for the human emotions “[18], la poesia è una specie di matematica ispirata che ci dà equazioni non per figure astratte, triangoli, sfere, e simili, ma equazioni per le emozioni umane.
L’uccello “amareggiato” dunque ( pikra’”- o[rniqo”, vv. 423-424 ) messo in rilievo dall’inarcatura, è un altro segno di “paese guasto”[19] dove tutto va contro natura. Infatti siamo abituati a considerare gli alati come portatori di letizia. C’è per esempio un makarismov” di Aristofane nella seconda parabasi degli Uccelli (del 414) che d’inverno non indossano mantelli né li brucia (qavlpei, v. 1092) il caldo raggio luminoso della calura soffocante poiché abitano nei seni dei prati fioriti e delle foglie.
Gli alati sono naturalmente portatori di eujdaimoniva. Nel De rerum natura gli uccelli sono i primi a segnalare l’arrivo di Venere all’inizio della primavera:” Nam simul ac species patefactast verna diei/et reserata viget genitabilis aura favoni,/aeriae primum volucres te, diva, tuumque/significant initum perculsae corda tua vi ” (I, 10-13), infatti appena l’aspetto primaverile del tempo si è manifestato/e vigoreggia dischiuso il soffio fecondatore di Zefiro,/per primi gli uccelli del cielo segnalano te, o dea,/e il tuo arrivo percossi nel cuore dalla tua forza. Vedremo che del resto quel perculsae (da percello, “colpisco” ) contiene un’avvisaglia di violenza; l’uccello stesso è un segno ambiguo e dà segni ambigui.
Pure il pessimismo di Leopardi ha dovuto riconoscere qualche felicità agli uccelli:’E che gli uccelli sieno e si mostrino lieti più che gli altri animali, non è senza ragione grande. Perché veramente…sono di natura meglio accomodati a godere e ad essere felici. Primieramente non par che sieno sottoposti alla noia. Cangiano luogo a ogni tratto; passano da paese a paese quanto tu vuoi lontano, e dall’infima alla somma parte dell’aria, in poco spazio di tempo, e con facilità mirabile…E siccome abbondano della vita estrinseca, parimenti sono ricchi della interiore; ma in guisa, che tale abbondanza risulta in loro benefizio e diletto, come nei fanciulli; non in danno e miseria insigne, come per lo più negli uomini”(Elogio degli uccelli).
L’uccello sofferente è segno di un dolore diffuso dovunque nel mondo, una sofferenza che è figlia della malvagità umana e che solo la bellezza morale può riscattare come nota Dostoevskij :” il mio giovane fratello chiedeva perdono anche agli uccelli: lì per lì, sembra un’assurdità, codesta; invece non lo è punto, perché il mondo è come l’oceano; tutto scorre e interferisce insieme, di modo che, se tu tocchi in un punto, il tuo contatto si ripercuote magari all’altro capo della terra. E sia pure una follia chiedere perdono agli uccelli; ma per gli uccelli, per i bambini, per ogni essere creato, se tu fossi, anche soltanto un poco, più leale di quanto non sei ora, la vita sarebbe certo migliore”[20]
Resta da commentare l’ultimo verso tradotto (425) con quel “giaciglio…privo” (ojrfanovn…levco”). Lo strazio dell’uccello privato dei figli prefigura la pena di Antigone che condotta nella prigione-tomba lamenterà di andare a morire a[gamo”…a[klauto”, a[filo”, ajnumevnai-o” (vv. 867 e 876-877), senza nozze, senza compianto, senza amici, senza canti nuziali. Antigone è la madre mancata.
Anche questa ragazza di durezza amazzonica dunque ha momenti di tenerezza e di rimpianto per la maternità mancata. “In termini umani, levco” è il letto. Non si tratta di un contrasto convenzionale né di un raddoppiamento formale. E’ l’inferenza schiacciante della sterilità e della solitudine. La profanazione di Polinice provoca l’imminente rovina di Antigone. Anche per lei, il “nido/letto” nuziale e materno sarà vuoto e la sua progenie annientata”[21]. Antigone oppone la famiglia alla povli” :”Ciò che si oppone alla città è il suo stesso cuore, l’oij’ko”. Altri Creonti, con altrettanta disperata fatica, regneranno su Tebe; Antigone mai. Ma sempre Antigone ne sconvolgerà la potenza. La sola presenza di questa Menade dell’Ade che stride lamentosa sul cadavere del fratello come un uccello su un nido vuoto, spezza per sempre il ritmo armonico del logos della polis, la sua u{bri” di tutto comprendere e governare”[22].
Il paragone dell’essere umano privato di un affetto con l’usignolo addolorato che piange la perdita dei figli si trova anche nell’Elettra (413?) di Sofocle (teknolevteir& wJv” ti” ajhdwvn, v. 107, come un usignolo orbato della prole) che invece ha perduto il padre assassinato dalla madre e dal suo amante.
L’uccello addolorato del resto può essere paragonato anche a un uomo: Virgilio lo paragona al poeta Orfeo: non per niente ajhdwvn (usignolo) si forma sulla radice aj/d- /wj/d- sulla quale anche ajoidov” , cantore, poeta.
Nella IV Georgica (29 a. C.) il mantovano utilizza questa similitudine per aggiungere pathos e ornamento mitico al dolore di Orfeo che ha perduto la sposa. Egli pianse sette mesi tutti interi sotto un’alta rupe presso l’onda dello Strimone deserto, da solo, e rievocò questi fatti sotto le gelide stelle ammansendo le tigri e trascinando con il canto le querce, “qualis populea maerens philomela sub umbra/amissos queritur fetus, quos durus arator/observans nido implumis detraxit; at illa/flet noctem, ramoque sedens miserabile carmen/integrat, et maestis late loca questibus implet ” ( vv. 511-515), quale l’usignolo addolorato sotto l’ombra del pioppo lamenta le creature perdute, che il crudele aratore spiando trasse giù implumi dal nido; ma quello piange nella notte e, posato sul ramo, rinnova il compassionevole canto e per largo tratto riempie i luoghi di tristi lamenti.
G. B. Conte in un suo saggio in inglese che provo a tradurre fa notare che “l’usignolo canta e si duole , come il poeta amante Orfeo canta e si duole; e l’usignolo-almeno da Catullo 65[23]– è una figura emblematica del poeta elegiaco“[24].
Più spesso però in letteratura il paragone viene fatto con la donna.
Per esempio in Tess la ragazza “la quale non aveva ancora compiuto ventun anni era stata presa durante i giorni della sua immaturità come un uccello in una rete” (p. 261). Più avanti la splendidissima giovane donna trova degli uccellini agonizzanti, massacrati dai cacciatori e si pente di essersi considerata la più infelice delle creature:”Poverini…come ho fatto a pensare di essere la creatura più disgraziata sulla faccia della terra davanti a una sofferenza come la vostra!” esclamò, uccidendo quegli uccelli quasi con tenerezza, mentre aveva le guance bagnate di lacrime. “E io che non sento una sola fitta di dolore in tutto il corpo! Non sono stata maciullata, io, non sanguino, e ho due mani per nutrirmi e vestirmi”(p. 361). Anche questa creatura che si confronta con gli uccellini è una sposa abbandonata dal marito dopo che i due si erano detti di avere avuto un’esperienza sessuale precedente. “Torna da me” gli scrive “Sono desolata senza di te, amore mio. Oh, così desolata!” (p. 433).
Il mito di Procne, altra infelicissima sposa, Filomela, Tereo e il metodo mitico.
Il nome di Filomela che abbiamo trovato (Georgica IV , 511) per indicare l’usignolo richiama precisamente il mito dell’infelice principessa figlia del re ateniese Pandione, di sua sorella Procne, e del marito di questa, Tereo che violentò la cognata, la recluse e le tagliò la lingua. Ma la disgraziata informò la sorella facendole pervenire una tela dove aveva ricamato, a lettere scarlatte su fondo bianco (“purpureas notas filis intexuit albis“[25] ) la sua dolorosa storia. “Alla smodata violenza del barbaro si oppone così l’astuzia della cultura“[26]. Quindi Procne, per punire il marito, aiutata dalla sorella, uccise il loro figliolo Iti e glielo diede da mangiare.
Alla fine Tereo tentò di ammazzare la moglie e la cognata, ma i tre sciagurati vennero trasformati in uccelli, in usignolo appunto Filomela, in rondine Procne e in upupa Tereo.
Un mito che “ebbe una straordinaria fortuna: Shakespeare, ad esempio, lo tenne certamente presente nella composizione del Tito Andronico, che utilizza in larga parte elementi di questo intreccio”[27]. Ne fa un lungo racconto in esametri Ovidio nelle Metamorfosi [28] (VI, 426-674) cui allude Eliot per significare la decadenza del mito nella ricezione degli uomini moderni:”The change of Philomel, by the barbarous king/So rudely forced; yet there the nightingale/Filled all the desert with inviolable voice/And still she cried, and still the world pursues,/’Jug Jug’ to dirty ears ” (The Waste Land , vv. 99-103), La metamorfosi di Filomela, dal barbaro re così brutalmente forzata; eppure là l’usignolo riempiva tutto il deserto con voce inviolabile, e ancora ella piangeva e ancora il mondo continua ‘Giag Giag’ a orecchie sporche.
Il canto della voce inviolabile di Filomela è degradato e dissacrato, poiché suona oramai solo naturalisticamente come un “Jug Jug” per le orecchie inquinate del mondo contemporaneo.
La ragazza della storia di Ovidio, dopo essere stata brutalmente violentata dal cognato invoca i numi e chiama a raccolta le proprie forze perché il barbaro infame subisca la punizione meritata:”Si tamen haec superi cernunt, si numina divum/sunt aliquid, si non perierunt omnia mecum,/quandocumque mihi poenas dabis. Ipsa pudore/proiecto tua facta loquar: si copia detur,/in populos veniam; si silvis clausa tenebor,/implebo silvas et conscia saxa movebo” (Metamorfosi, VI, 542-547), se però quelli che stanno là sopra vedono queste atrocità, se la potenza degli dèi ha qualche valore, se non è morta tutta con me, una volta o l’altra mi pagherai il fio. Io stessa, gettato via il pudore dirò le tue infamie: qualora ne abbia la possibilità, verrò tra le genti; se sarò tenuta chiusa tra i boschi, riempirò le selve e commuoverò i consapevoli sassi.
Nel mondo antico si commuovono i sassi; nel moderno le orecchie sporche degli uomini sentono solo il fruscìo o il tintinnìo del denaro.
In una recensione all’Ulisse di Joyce (“Ulysses, Order and Myth“, The Dial, nov. 1923) Eliot chiamò mythical method , metodo mitico, questo “maneggiare continui parallelismi tra la contemporaneità e l’antichità…un modo per controllare e ordinare, per dare una forma e un significato a quell’immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea”.
Si tratta dunque di una continua coll’azione tra frammenti della realtà contemporanea e i loro paradigmi mitici che tagliano perpendicolarmente tutta la storia.
La teoria degli archetipi di Yung fu elaborata, non per caso, in questo stesso periodo.
Eliot richiama ancora il mito di Filomela e Procne nella nota al v. 428 de La Terra desolata il quale fa:”Quando fiam uti chelidon–O swallow swallow “, quando diverrò come la rondine- O rondine rondine.
La citazione è tratta dal Pervigilium Veneris , La veglia di Venere, un carme anonimo, compreso nell’Anthologia latina , di novantatré versi (tetrametri trocaici catalettici), di età e attribuzione incerta, dal II secolo d. C. , al IV, al VI; da Floro, a Tiberiano, a un’autrice anonima.
Il poemetto celebra il ritorno della primavera e la potenza di Venere con l’esaltazione dell’amore, della natura e del piacere, non senza però un’ombra di malinconia che si allunga nel finale con la menzione del mito della tragica sposa ateniese:
“Iam loquaces ore rauco stagna cycni perstrepunt/adsonat Terei puella subter umbram populi,/ut putes motus amoris ore dici musico/et neges queri sororem de marito barbaro./Illa cantat, nos tacemus. Quando ver venit meum?/Quando fiam uti chel?don, ut tacere desinam?/Perdidi Musam tacendo nec me Phoebus respicit./Sic Amyclas, cum tacerent, perdidit silentium./Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet! ” (vv. 85-93) , già i cigni loquaci fanno risonare gli stagni con voce roca. Fa eco la sposa di Tereo[29] sotto l’ombra del pioppo, sì che tu pensi che passioni d’amore siano cantate dalla voce musicale e non dica che pianga la sorella stuprata dal marito barbaro. Quella canta, noi tacciamo. Quando viene la mia primavera? Quando diverrò come rondine e smetterò di tacere? Ho perduto il canto tacendo e Febo non mi guarda più. Così il silenzio ha perduto Amicla[30] quando tacevano. Ami domani chi non ha mai amato e chi ha amato ami domani![31]. L’amore è contaminato dal dolore attraverso il ricordo delle due disgraziate sorelle.
La rondine è un segno ambiguo anche nel Macbeth dove Banquo giungendo al castello del protagonista già pronto al cupo delitto sostiene che la presenza di questo uccello significa amenità del luogo e amabilità dell’aria: l’alito del cielo qui sa di amore (I, 6). Invece si sta preparando un assassinio.
Il ritorno della primavera è accompagnato dal verso perpetuo delle figlie di Pandione trasformate in uccelli anche nel sonetto CCLXVI de Il Canzoniere di Petrarca:” Zefiro torna e ‘l bel tempo rimena/e i fiori e l’erbe, sua dolce famiglia,/e garrir Progne e pianger Filomena, e primavera candida e vermiglia” (CCCX ,vv. 1-4).
Il motivo dell’uccello dolente che piange per avere perduto i suoi cari si trova, più precisamente nel sonetto successivo (CCLXVII):”Quel rosignuol che sì soave piagne/forse suoi figli o sua cara consorte/di dolcezza empie il cielo e le campagne/con tante note sì pietose e scorte” (CCCXI ,vv. 1-4).
Insomma il ritorno della primavera con Aprile “the cruellest month “[32], evoca, con l’amore, storie dolorose di tradimenti, stupri e violenze.
Corrisponde a quanto afferma Medea, per poi metterlo in pratica con un comportamento estremo:”ahi ahi, che grande male (kako;n mevga) è l’amore per i mortali!” ( Medea, v. 330). ùNelle Argonautiche infatti Eros mandato da Afrodite a sconvolgere Medea arriva sconvolgente come si getta sulle giovani vacche l’assillo che i mandriani chiamano tafano (III, 276-277).
Torniamo alla Deianira delle Trachinie di Sofocle: ella distingue la condizione della ragazza che nelle gioie solleva la vita senza fatica ( “hJdonai'” a[mocqon ejxaivrei bivon“, v. 147), una creatura insomma sul genere della Silvia di Leopardi, dalla donna sposata, quella sposa infelice che stiamo trattando e che nelle notti si carica di affanni temendo per il marito o per i figli (” [htoi pro;” ajndro;” hj; tevknwn foboumevnh ” , v. 150). Infatti, dormendo sola nel letto coniugale, questa moglie desolata balza su dal sonno in preda alla paura, tremante per il terrore (vv. 175-176).
Il motivo della paura è presente e assillante anche nei personaggi maschili (Edipo dell’Edipo re e Creonte dell’Antigone ) che temono di perdere il potere; nella moglie di Eracle invece c’è il fovbo” della perdita del marito. La paura di Deianira “fin dall’inizio della tragedia appare come un dato strutturale del personaggio. In questo modo Sofocle riesce a dare una valenza nuova-rispetto all’Edipo re – alla ripresa dei procedimenti conoscitivi razionalistici nel personaggio tragico. La conoscenza di Deianira si rivela, nel momento, impotente di fronte all’agire, e d’altra parte questa conoscenza fin dall’inizio ha sotto di sé un sottosuolo caratterizzato dalla dimensione della paura”[33].
Del resto già da ragazza ella aveva sentito l’angoscia dell’abbandono, da parte della madre, quando, dopo avere assistito sbigottita alla lotta spaventosa tra Acheloo ed Eracle, un mostro (la forza di un fiume, dall’aspetto di un toro dalle alte corna, eretto su quattro zampe, vv. 508-509) contro un gigante che scuoteva l’arco flessibile, le lance e la clava (vv. 511-512), vinta da quest’ultimo, era andata via con lui “kajpo; matro;” bevbac& -w{ste povrti” ejrhvma” (vv. 529-530), lontano dalla madre, come giovenca abbandonata.
L’amante ingannata e abbandonata.
Catullo, Cicerone, Properzio, Ovidio e la fides .
Deianira viene lasciata sola e tradita dopo essere stata per lo meno sposata e resa madre.
Non così Arianna dell’opus maximum [34] di Catullo, il carme 64, di 408 esametri.
La figlia di Minosse, piantata in asso da Teseo mentre dormiva nell’isola di Dia, al risveglio si dispera, corre come una puledra e impreca contro il perfido amante:”Sicine me patriis avectam, perfide, ab aris,/ perfide [35], deserto liquisti in litore, Theseu?/Sicine discedens neglecto numine divum/inmemor a! devota domum periuria portas? ” (64, vv. 132-135) è così che tu, traditore, condottami via dal focolare paterno, mi hai abbandonata in una spiaggia deserta, Teseo, traditore? E’ così che tu, fuggendo dopo avere disprezzato il potere dei numi, dimentico ah! porti a casa i tuoi maledetti spergiuri?
Vediamo che la ragazza si trova “in litore ” (v. 133) vicino al mare, come Orfeo era “ad Strym?nis undam ” presso la corrente dello Strimone, il fiume della Tracia.
In questa compresenza di acqua e dolore A. Giordano, commentando la IV Georgica (v. 508) individua un altro topos :”Il lamento davanti all’acqua è un topos che risale ad Omero (cfr. il lamento di Achille sulla riva del mare nel I libro dell’Iliade e quello di Ulisse[36], assalito dalla nostalgia della patria); è ripreso particolarmente nella topica dell’amante infelice (cfr. in Catullo, 64, 130 ss., nell’epill’io di Teseo ed Arianna, il lamento di Arianna, con cui questo passo virgiliano presenta numerosi punti di contatto; elemento di variazione è l’acqua, di solito del mare con la sua immensità, qui di un fiume)”[37].
Vedremo la parodia di questo modello nel Satyricon (81) quando Encolpio va a lamentarsi dell’abbandono subito da Gitone in un posto appartato e vicino alla spiaggia.
Il fiume per l’uomo è comunque motivo di riflessione e approfondimento, di ingresso in se stesso. Con questa ottica lo osserva Siddharta di H. Hesse :” Ad ascoltare mi ha insegnato il fiume e anche tu imparerai da lui. Lui sa tutto, il fiume, tutto si può imparare da lui. Vedi, anche questo tu l’hai già imparato dall’acqua, che è bene discendere, tendere verso il basso, cercare il profondo…Prima di tutto apprese da lui ad ascoltare, a porger l’orecchio con animo tranquillo, con l’anima aperta, in attesa, senza passione, senza desiderio, senza giudicare, senza opinioni…considerai la mia vita, e vidi che è anch’essa un fiume, vidi che soltanto ombre, ma nulla di reale, separano il ragazzo Siddharta dall’uomo Siddharta e dal vecchio Siddharta…Spesso sedevano insieme di sera su un tronco presso la riva, e tutti e due ascoltavano l’acqua che per loro non era acqua ma la voce della vita, la voce di ciò che è ed eternamente diviene”[38].
LArianna di Catullo poco più avanti rimpiange le nozze mancate:”At non haec quondam bland? promissa dedisti/voce mihi, non haec, miserae, sperare iubebas,/sed conubia laeta, sed optatos hymenaeos./Quae cuncta aerii discerpunt irrita venti./Nunc iam nulla viro iuranti femina credat /nulla viri speret sermones esse fideles /quis [39] dum aliquid cupiens animus praegestit apisci,/ nil metuunt iurare, nihil promittere parcunt;/ sed simul ac cupidae mentis satiata libido est,/dicta nihil [40]metuere [41], nihil periuria curant ” ( 64, vv. 139-148), Però non queste promesse mi facesti una volta con voce suadente, non questo mi inducevi, disgraziata a sperare, ma un matrimonio felice, ma le nozze desiderate. Tutte promesse che, vane, disperdono i venti nell’aria. Ora nessuna donna creda più nell’uomo che giura, nessuna speri che siano sincere le parole degli uomini; il loro animo libidinoso, finché agogna di ottenere qualcosa non teme di fare alcun giuramento, non risparmia le promesse; ma appena è sazio il piacere del desiderio amoroso, non hanno paura delle promesse, né si curano degli spergiuri.
Apollonio Rodio (III sec. a. C.) forse allude alla brutta fine della storia d’amore di Giasone e Medea quando rappresenta, non senza ironia la stupidità dell’ “eroe” greco che, bisognoso del soccorso della ragazza barbara per la sua ajmhcaniva , le fa l’esempio del tutto inopportuno di Arianna la quale, per benevolenza, liberò Teseo dai cattivi travagli (Le Argonautiche , III, 997-998). “Il dislivello nell’investimento psichico da parte dei due personaggi traspare comunque già da alcuni elementi del dialogo (la manipolazione retorica a cui Giasone sottopone l’exemplum mitico di Arianna: uno degli stilemi con cui il narratore, sfruttando la complicità del lettore, allude oscuramente al futuro tragico di Medea e al suo abbandono)”[42]
Del resto Catullo attribuisce la medesima malafede alle femmine umane, in particolare alla sua amante, e forse Teseo che abbandona Arianna ai suoi occhi rappresenta il vendicatore delle infedeltà da lui stesso subite dalla propria donna :” Nulli se dicit mulier mea nubere malle/quam mihi, non si se Iupiter ipse petat./Dicit ; sed mulier cupido quod dicit amanti/in vento et rapida scribere oportet aqua ” (70 ), la mia donna dice di non volere unirsi ad altri piuttosto che a me, neppure se Giove la corteggiasse. Dice così, ma quello che la donna dice all’amante smanioso, bisogna scriverlo nel vento e nell’acqua che le porta via.
Per il poeta di Sirmione la lealtà reciproca è un valore di base in ogni relazione umana, soprattutto in un grande amore, e la sua sofferenza deriva proprio dal mancato rispetto di tale patto sacro da parte della donna che fu, afferma, “amata nobis quantum amabitur nulla ” (8, 5), amata da me quanto non sarà amata nessuna.
“Dicebas quondam solum te nosse Catullum,/Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem./Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam,/sed pater ut gnatos diligit et generos ” (72, 1-4), una volta dicevi di conoscere profondamente solo Catullo, Lesbia, e di non voler possedere Giove piuttosto che me. Allora ti ho amata non solo come il volgo un’amica, ma come il padre ama i figli e il suocero i generi.
Amare è conoscere e viceversa.
E’ interessante nosse del v. 1 poiché ci suggerisce che amare una persona costituisce la più reale e profonda delle conoscenze. Ipsipile, regina di Lemno, un’altra vittima di Giasone, cui rimprovera l’infedeltà[43], usa il verbo cognosco nello stesso senso::”Non ego sum furto tibi cognita; pronuba Iuno (Heroides 6, 45) non hai avuto con me rapporti sessuali di nascosto; fu pronuba Giunone. Insomma conoscere è amare e chi non ama non ha vere conoscenze.
Dell’amore “è scritto che chi ne fosse privo, anche se sapesse parlare tutte le lingue degli uomini e degli angeli, altro non sarebbe che un rame risonante e un tintinnante cembalo”[44]. La stessa idea si trova nel conoscere biblico:”Conoscere significa penetrare sotto la superficie, allo scopo di giungere alle radici, e pertanto alle cause; conoscere significa “vedere” la realtà senza paludamenti. Conoscere non significa essere in possesso della verità, bensì andare sotto lo strato esterno e tentare, criticamente e attivamente, di avvicinarsi sempre più alla verità. Questo modo di penetrazione creativa trova espressione nell’ebraico jadoa , che significa conoscere e amare nel senso della penetrazione sessuale maschile”[45]. Sembra che questo jadoa corrisponda al nostro nosse .
D’Annunzio stabilisce tra la conoscenza e il piacere un nesso ancora più forte di quello indicato dal tradizionale tw’/ pavqei mavqo”:”ella[46] ci mostra la possibilità di un dolore trasmutato nella più efficace energia stimolatrice; ella c’insegna che il piacere è il più certo mezzo di conoscimento offertoci dalla natura e che colui il quale molto ha sofferto è men sapiente di colui il quale molto ha gioito”[47].
La perfidia amorosa allora è anche un tradimento intellettuale e conoscitivo.
Sull’amore e la fides leggiamo i due distici del carme 87:”Nulla potest mulier tantum se dicere amatam/vere, quantum a me Lesbia amata mea est./Nulla fides ullo fuit umquam foedere tanta,/quanta in amore tuo ex parte reperta mea est “, nessuna donna può dire di essere stata amata tanto sinceramente quanto la mia Lesbia è stata amata da me. Nessuna lealtà in alcun patto fu mai tanto grande quanto nell’amore per te è stata trovata da parte mia.
A proposito del v. 3 Conte nota che “Foedus e fides sono legati etimologicamente: foedus è “l’accordo”, il trattato stipulato secondo le sacre regole della fides “[48]. Fides insomma è il rispetto del foedus.
Secondo E. Benveniste:”Colui che detiene la fides messa in lui da un uomo ha quest’uomo in suo potere. Ecco perché fides diventa quasi sinonimo di potestas e di dicio. Nella loro forma primitiva, queste relazioni comportano una certa reciprocità: mettere la propria fides in qualcuno procurava la sua garanzia e il suo appoggio. Ma proprio questo fatto sottolinea l’ineguaglianza delle condizioni”. A maggior ragione direi quando la fides è intrecciata con l’amore e chi la propone ama di più e chi ama meno ha il sopravvento. “E’ dunque un’autorità che si esercita contemporaneamente a una protezione su colui che vi si sottomette, in cambio e nella misura della sottomissione. Questa relazione implica potere di obbligare da una parte, obbedienza dall’altra. Lo si vede nella significazione precisa, molto forte, della parola lat. foedus (da *bhoides) stabilito all’origine tra contraenti di diseguale potenza “.
Nel carme 64 la vicenda di Arianna tradita è un’ e[kfrasi” , la descrizione, di oltre 200 versi, della storia ricamata sulla coperta del letto nuziale, inserita nelle nozze di Peleo e Teti, e il tradimento di Teseo è contrapposto all’amor, al foedus, alla concordia degli sposi con motivi tipici dell’epitalamio:”nullus amor tali coniunxit foedere amantes,/qualis adest Thetidi, qualis concordia Peleo” (vv. 355-356), nessun amore ha unito gli amanti con un patto tale quale la concordia che c’è tra Peleo e Teti.
Cicerone nel De Officiis dà una definizione della fides ” Fundamentum autem est iustitiae fides, id est dictorum conventorumque constantia et veritas ” (I, 23), orbene la fides è il fondamento della giustizia, cioè la fermezza e la veridicità delle parole e dei patti convenuti. Subito dopo l’autore, imitando gli Stoici, etimologizza fides con fiat quod dictum est , deve essere fatto ciò che si è detto. Similmente in De republica IV, 7″ Fides enim nomen ipsum mihi videtur habere , cum fit, quod dicitur “, la fedeltà mi sembra avere il suo stesso nome quando si fa ciò che si dice.
Nel De amicitia [49] la fides è indicata come fondamento di quella stabilità e costanza che cerchiamo appunto nell’amicizia:”Firmamentum autem stabilitatis constantiaeque est eius, quam in amicitia quaerimus, fides” (65).
“La fides significa l’abbandono, al tempo stesso fiducioso e completo, di una persona ad un’altra. Esso interviene…come salvaguardia dal vincolo sociale e in tutti i rapporti che collegano l’individuo ai suoi simili, sia che si tratti del matrimonio, dei vincoli tra il cliente e il suo patrono, oppure di una tutela, o dei contratti che itituiscono una società o stipulano le vendite. Fides significa dunque tributare a ciascuno ciò che gli è dovuto, nel rispetto degli accordi stabiliti. La fides si instaura quindi solo allorché lo ius di ciascuno è riconosciuto e garantito dagli altri; essa è la condizione stessa di ogni vita sociale. Non ci si stupirà perciò che Cicerone possa dichiarare:-il fondamento di ogni giustizia è la fides vale a dire la fedeltà agli impegni presi e la sincerità nelle parole”[50].
La fides è un valore forte non solo nei rapporti personali ma anche in quelli tra partiti e stati. La fides di Camillo e di Germanico.
La Sempronia del Bellum Catilinae di Sallustio è una donna la cui perfidia, non meno della lussuria, è consona al suo ruolo di congiurata:” ea saepe antehac fidem prodiderat” (25), ella spesso già prima aveva tradito la fede.
Faccio un esempio storico di fides romana ricompensata: Tito Livio (59 a. C.-17 d. C.) racconta che i Falisci, nel 394, in guerra con i Romani guidati da Furio Camillo si arresero al tribunus militum consulari potestate dopo che questi si fu rifiutato di conquistare la città etrusca grazie al tradimento di un maestro di scuola che voleva consegnargli i figli dei capi di Faleri a lui affidati. “Fides Romana, iustitia imperatoris in foro et curia celebrantur” (V, 27, 1), nel foro e nel senato (di Faleri) vengono esaltati la lealtà romana e la giustizia del comandante. Quindi vengono mandati ambasciatori a Camillo e da lui a Roma in senato per offrire la resa. Questi dissero che pensavano di vivere meglio sotto il governo romano che con le loro leggi e che con l’esito di quella guerra erano stati offerti due salutari eventi al genere umano:” vos fidem in bello quam praesentem victoriam maluistis; nos fide provocati victoriam ultro detulimus” (V, 28, 13), voi avete preferito la lealtà in guerra a una vittoria immrdiata; noi, sollecitati da questa lealtà, vi abbiamo offerto spontaneamente la vittoria. Nel buon tempo antico dunque l’osservanza della fides pagava.
Tacito fa un commento su quello che per lui è un aspetto della fides esasperato e pervertito presso i Germani: quando giocando a dadi hanno perso tutto, con un ultimo lancio mettono in gioco la loro libertà personale, e, se perdono ancora, accettano la schiavitù e, pur se giovani e robusti, si lasciano legare e vendere; ebbene:”ea est in re prava pervicacia; ipsi fidem vocant” (Germania, 24, 2), tale è l’ostinazione in un vizio riprovevole: essi la chiamano lealtà.
Del resto lo stesso Tacito negli Annales mette in rilievo la bella lealtà di Germanico che i suoi legionari avrebbero voluto proclamare imperatore al posto di suo zio Tiberio dopo la morte di Augusto:”sed Germanicus quanto summae spei propior, tanto impensius pro Tiberio niti ” (I, 34), ma Germanico quanto più vicino alla speranza del sommo potere, tanto più fortemente si adoperava in favore di Tiberio; anzi quando si reca presso le legioni della Germania inferiore che, in rivolta, cercavano di acclamarlo imperatore esclamò “moriturum potius quam fidem exueret ” (I, 35) che sarebbe morto piuttosto che rinnegare la parola data.
La fides come nozione giuridica oltreché morale. La fides in Properzio, Petrarca e Màrquez.
Ma torniamo all’argomento amoroso con P. Fedeli:” Il foedus amoris si basa sul rispetto della fides che non solo è uno degli elementi tradizionali della morale romana, ma è anche uno dei fondamenti del diritto. Si tratta di motivo tipicamente repubblicano, che tuttavia sopravvive, con aspetti e formule di tipo diverso, anche nel periodo imperiale (dalla fides praetorianorum alla fides militum alla fides legionum ). Riferendosi a un contratto fra due persone in seguito ad un foedus , la fides è nozione giuridica oltreché morale. In amore essa implica non solo un accordo di tipo erotico, ma anche la ricerca di un’unione morale che talora supera le barriere sociali…Se Properzio riprende il motivo da Catullo” e anzi lo esaspera” Ben diverso sarà l’atteggiamento di Ovidio, desultor amoris sin dai giovanili Amores e, poi, precettore di principi lontani dalla fides nell’Ars amatoria “[51]. Infatti Quintiliano lo defisce “utroque lascivior ” (Institutio oratoria, X, 1, 93), più lascivo dell’uno e dell’altro, ossia di Tibullo e Properzio.
Sulla fides di Properzio trovo altre considerazioni interessanti, sempre di P. Fedeli:” Si tratta di un patto che non si fonda solamente sulla passione erotica, ma include slanci di tenerezza, tentativi di raggiungere un livello di comprensione reciproca, momenti di sincero attaccamento. Per di più la fides fa dell’amore un rapporto che neppure la morte può modificare: come Properzio si sforza di sottolineare in più d’una occasione, quello fra i due amanti è un legame che va al di là dell’umana esistenza. In I, 19 egli s’immagina che, quando nell’oltretomba incontrerà le più famose eroine del mito, nessuna avrà lo stesso fascino di Cinzia”[52]. Anche là lo spirito del poeta sarà per sempre della donna amata in vita:”traicit et fati litora magnus amor ” (I, 19, 13), un grande amore varca anche le rive del fato. “Nella toccante conclusione del discorso pronunciato dall’ombra di Cinzia nella 4, 7-continua il professore dell’Università di Bari- la rappresentazione dell’amore che continuerà nel mondo degli inferi si colora addirittura di accenti erotici, nell’immagine delle ossa del poeta che si strofinano e si confondono con quelle della sua amata[53]” (p. 19). Sentiamo le parole dell’umbra di Cinzia a Properzio:”nunc te possideant aliae: mox sola tenebo:/mecum eris et mixtis ossibus ossa teram ” (IV, 7, 93-94), ora ti possiedano altre: presto ti avrò io sola: sarai con me e sfregherò le ossa con le ossa mescolate. L’amante morta finalmente aderisce al Cynthia prima fuit, Cyntia finis erit auspicato nel I libro ( 12, 20).
Altrettanto eterno sarà l’amore di Laura in una fantasia poetica del Petrarca (CCCII, sonetto 268) che si eleva con il pensiero nel cielo di Venere dove rivide la donna “più bella e meno altera”. Quindi l’immagine fece un gesto affettuoso e prese a parlare:”Per man mi prese e disse:”In questa spera/sarai ancor meco, se il desir non erra:/i’ so’ colei che ti diè tanta guerra/ e compie’ mia giornata inanzi sera.// Mio ben non cape in intelletto umano:/te solo aspetto, e quel che tanto amasti/ è là giuso e rimaso, il mio bel velo” (vv. 5-11).
“La fedeltà ad un’unica donna accomuna Properzio alla generazione più recente degli Alessandrini: Meleagro[54], infatti, aveva proclamato la serietà dell’impegno erotico, opponendosi a quanti, come Callimaco, avevano visto nell’amore un semplice lusus senza obblighi di fedeltà. Ma Properzio va ben oltre, e lo si capisce sin dalla prima elegia: egli intende addirittura servire l’amata e la sua è una condizione di schiavitù…Questo atteggiamento costituiva una totale inversione di alcuni valori fondamentali della morale romana, in cui la dedizione e il servitium erano obblighi della donna nei confronti dell’uomo: accettare il servitium significa, oltre che nullo vivere consilio [55], seguire la nequitia e rinunciare al tempo stesso ai vantaggi della vita socialmente impegnata; il poeta sa bene che questo atteggiamento farà di lui un oggetto di biasimo in tutta la città (2, 24, 5 sgg.): ma l’amore è furor che divora e contro una simile malattia non esistono rimedi[56].
Vediamo un esempio di fides nella letteratura contemporanea: G. G. Marquez racconta la storia di un uomo che per cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni aspetta la donna di cui si era innamorato da ragazzo, Fermina Daza, quando lei era la più bella ragazza del Caribe e aveva “un’andatura da cerva”. Al funerale del marito, il dottor Urbino che l’aveva sposata per amore, riamato, Florentino Aziza, l’innamorato a vita, le disse:”Fermina, ho atteso questa occasione per più di mezzo secolo, per ripeterti ancora una volta il giuramento della mia fedeltà eterna e del mio amore per sempre”[57].
L’amicitia amorosa.
Nel carme 1O9 Catullo, ricordando a Lesbia la promessa fatta da lei di un amor non solo felice (iucundus) ma anche eterno (perpetuus), nel verso conclusivo (6) utilizza la parola amicitia che “aveva per i Romani un significato più specifico che per noi, e indicava l’esistenza fra due persone di un legame di alleanza politica, basato sulla lealtà (fides ), che comportava sincerità e aiuto reciproci. Trasportati all’interno di una relazione sentimentale, questi principi ne fanno ben altro che un’avventura irregolare.”[58]. Qui il poeta chiede agli dei “ut liceat nobis tota perducere vita/aeternum hoc sanctae foedus amicitiae ” (vv. 5-6), che sia concesso a lui e a Lesbia di portare avanti per tutta la vita questo patto eterno di amicizia santa. Essa è tale quando è disinteressata, ossia non basata sulla considerazione dell’utile. Altrimenti è negotiatio, un commercio.
Ovidio invece consiglia di usare l’amicitia come il cavallo di Troia adatto a inoculare l’amore:”Nec semper Veneris spes est profitenda roganti;/intret amicitiae nomine tectus amor./Hoc aditu vidi tetricae data verba puellae;/qui fuerat cultor, factus amator erat” (Ars Amatoria, I, 717-720), non sempre la speranza d’amore deve essere dichiarata da chi chiede; l’amore entri coperto dal nome di amicizia. Con questo tipo di ingresso ho visto raggirare una ragazza rigida; quello che era stato l’amico era diventato l’amante
Rompere la fede non porta bene.
Teseo nel carme 64 Catullo di paga il fio della sua slealtà.
Arianna abbandonata glielo augura e lo prevede:”sed quali solam Theseus me mente reliquit,/tali mente, deae, funestet seque suosque ” (vv. 200-201), con quale animo Teseo mi lasciò sola, con tale, o dee, getti nel lutto se stesso e i suoi.
In effetti Giove ascolta la preghiera la nemesi si compie:”annuit invicto caelestum numine rector ” (v. 204), il re degli dèi annuì con il suo assenso invincibile. “Il motivo della fides è in particolare centrale nella vicenda di Arianna abbandonata, ancora nel carme 64. La fides violata incorre qui nella punizione divina: Arianna, credendosi ormai destinata alla morte, aveva invocato su Teseo la maledizione degli dèi, e la sua preghiera non era rimasta inascoltata. Teseo è immemor tanto delle promesse ad Arianna (il matrimonio) quanto di quelle al padre (issare le vele bianche) e questo suo carattere costante è quello che lo porta tanto a tradire la donna che lo ama quanto a provocare la morte del proprio padre”[59].
“Sono proprio le false promesse di matrimonio che Arianna rimprovera con più veemenza all’eroe in fuga: e l’intero episodio a tratti assume l’aspetto di un exemplum mitico dell’inattendibilità dei giuramenti d’amore maschili (vv. 139-148). Arianna arriva a dire che si sarebbe accontentata della condizione servile, pur di rimanere legata a Teseo (vv. 158-163): la sua completa impotenza viene sintetizzata nell’impossibilità di fare ricorso da una parte al sostegno familiare, dall’altra a quello coniugale (vv. 180-183). Fuori da queste sfere di appartenenza, per la donna non sembra possibile trovare protezione”[60].
Che la slealtà verso chi si fidava rende infelici prima di tutti gli stessi sleali lo afferma già Isocrate nel Nicocle (del 368 ca) :” j jAqliwtavtou” hJgei’sqe kai; dustucestavtou” o{soi peri; tou;” pisteuvonta” a[pistoi gegovnasin” (58), reputate molto infelici e disgraziati quanti sono stati sleali nei confronti di chi credeva in loro; infatti, continua il re di Salamina di Cipro che pronuncia il discorso, è necessario che tali uomini passino il resto della vita con la paura di tutto e senza più fidarsi di nessuno.
In Pene d’amore perdute di Shakespeare leggiamo: Thus pour the stars down plagues for perjury” (V, 2), così le stelle versano guai sullo spergiuro.
Del resto Arianna, come Medea, ha tradito il padre e ha fatto morire il fratellastro, il Minotauro, per favorire l’uomo del quale era innamorata:” Eripui, et potius germanum amittere crevi,/quam tibi fallaci supremo in tempore deessem ” (vv. 150-151), ti salvai e decisi di perdere il fratello piuttosto che non esserti vicina, traditore, nel pericolo estremo.
Il rimprovero della perfidia è comunque parte costante del lamento o della rabbia delle donne abbandonate nella letteratura antica, con un’eco precisa nell’Orlando furioso quando l’Ariosto dà voce alla disperazione di Olimpia abbandonata da Bireno:” donne, alcuna di voi mai più non sia,/ch’a parole d’amante abbia a dar fede./L’amante, per aver quel che desia,/senza guardar che Dio tutto ode e vede,/aviluppa promesse e giuramenti,/che tutti spargon poi per l’aria i venti”. (X, 5).
I giuramenti d’amore dunque non sono credibili.
L’inaffidabilità riguarda tanto gli uomini quanto le donne.
Lo afferma pure Sofocle in un frammento (811 Pearson):” oJvrkon d& ejgw; gunaiko;” eij” uJvdwr gravfw”, giuramento di donna io lo scrivo sull’acqua.
E se tali solenni promesse penetrano da qualche parte, certo non dentro gli orecchi degli immortali, sostiene Callimaco in un epigramma:” ajlla; levgousin ajlhqeva, tou;” ejn e[rwti-oJvrkou” mh; duvnein ou[at& ej” ajqanavtwn” (A. P. V 6), ma dicono il vero che i giuramenti in amore non entrano negli orecchi degli immortali.
Ovidio echeggia questo motivo, sia per quanto riguarda Arianna tradita e la scarsa tenuta della parola dei maschi, sia per la non credibilità della femmina umana che è una creatura varia e sempre mutevole,”varium et mutabile semper/femina “, come aveva già detto Virgilio [61].
L’Arianna dei Fasti[62] toglie fiducia a tutti gli uomini:”dicebam, memini, ” periure et perfide Theseu” :/ille abiit; eadem crimina Bacchus habet : /nunc quoque “nullo viro” clamabo ” femina credat ” (Fasti , III, 475-477, dicevo, ricordo, “Teseo spergiuro e traditore”: / quello è andato via; Bacco commette lo stesso delitto:/ anche ora esclamerò:”nessuna donna si fidi più di un uomo”.
Per quanto riguarda l’instabilità e l’inaffidabilità delle giovani donne, il poeta di Sulmona negli Amores è più comprensivo: il tradimento infatti non sciupa la bellezza e perfino gli dèi lo concedono:” Esse deos credamne? Fidem iurata fefellit,/et facies illi quae fuit ante manet…Longa decensque fuit: longa decensque manet./Argutos habuit: radiant ut sidus ocelli,/per quos mentita est perfida saepe mihi./Scilicet aeterni falsum iurare puellis/di quoque concedunt, formaque numen habet ” (Amores , III, 3, 1-2 e 8-12), devo credere che ci sono gli dèi? Ha tradito la parola data,/eppure le rimane l’aspetto che aveva prima…Era alta e ben fatta; alta e ben fatta rimane./Aveva gli occhi espressivi: brillano come stelle gli occhi,/con i quali spesso la perfida mi ha ingannato./Certo anche gli dèi eterni permettono alle ragazze/di giurare il falso, e la bellezza ha una potenza divina.
Ovidio conclude dicendo che dio è un nome senza sostanza, oppure, se esiste, ama le belle fanciulle e certamente ordina che solo loro abbiano tutto il potere:”si quis deus est, teneras amat ille puellas:/nimirum solas omnia posse iubet ” (Amores , III, 3, 25-26).
L’aspetto degli uomini e delle donne. Il valore e la forza della bellezza esteriore. La potenza politica e seduttiva della parola.
In effetti noi uomini ci inchiniamo davanti al numen della bellezza femminile e mentre la brutta che tradisce (cosa paradossalmente più probabile) è un’asina, una scrofa o o una cagna scostumata, degna per lo meno di lapidazione, sull’adultera bella nessuno scaglia la prima pietra poiché tutti vorrebbero fornicare con lei.
Isocrate prende spunto dal magnifico aspetto di Elena per elogiare la bellezza come “semnovtaton kai; timiwvtaton kai; qeiovtaton tw’n o[ntwn” (Elena, 54), la più nobile, la più preziosa e la più divina tra le cose esistenti. Essa si incarna nelle persone belle verso le quali, appena le vediamo, siamo benevoli, e non ci stanchiamo di venerarle, come se fossero dèi, anzi preferiamo asservirci a loro che comandare gli altri (Elena , 56-57). Zeus stesso, signore del tutto, non sdegna di farsi umile pur di accostarsi alla bellezza (“pro;” to; kavllo” tapeino;” genovmeno””, 59). Infatti prese diversi aspetti per unirsi a donne mortali.
Leopardi nello Zibaldone nota un altro effetto della bellezza.
L’osservazione parte da alcuni versi della Canzone XIV di Petrarca Chiare fresche e dolci acque “Quante volte diss’io/allor pien di spavento:/Costei per fermo nacque in paradiso!”[63]
Seguono, in greco, i vv. 5-6 dell’ode di Saffo (fr. 2D) tradotta da Catullo (51), quelli nei quali la poetessa dichiara lo sconvolgimento del suo cuore alla vista dell’amata che amabilmente sorride.
Poi viene il commento:” E’ proprio dell’impressione che fa la bellezza…su quelli d’altro sesso che la veggono o l’ascoltano o l’avvicinano, lo spaventare, e questo si è quasi il principale e il più sensibile effetto ch’ella produce a prima giunta, o quello che più si distingue e si nota e risalta. E lo spavento viene da questo, che allo spettatore o spettatrice, in quel momento, pare impossibile di star mai più senza quel tale oggetto, e nel tempo stesso gli pare impossibile di possederlo com’ei vorrebbe“(pp. 3443-3444).
Vediamo alcune parole dell’Idiota di Dostoevskij sulla bellezza femminile, quella di Aglaja Ivanovna de L’idiota :”E’ difficile giudicare la bellezza..La bellezza è un enigma…Una bellezza simile è una forza…con una simile bellezza si può rovesciare il mondo“[64].
Sentiamo Tolstoj sulla potenza, spesso fuorviante, della bellezza. Chi parla è Pòzdnyshev il protagonista di La sonata a Kreutzer (1889) il quale racconta come è arrivato a uccidere per gelosia la moglie, una donna bella ma non adatta a lui:” E’ cosa davvero sorprendente con quanta facilità siamo indotti a illuderci che bellezza e bontà siano insieme congiunte. Quando una bella donna dice delle sciocchezze, stai a sentirla volentieri, e per quante papere ella dica, ti sembra intelligente. Se si comporta e parla come una villana, ti appare avvenente e gentile. Quando poi ella non dice né sciocchezze né cose disdicevoli, ed è anche graziosa, allora credi sul serio ch’ella sia un miracolo d’intelligenza e moralità”[65]. E più avanti:”l’amore più eletto e più poetico, come noi diciamo, non dipende per nulla dalle doti dello spirito, ma dalla fisica attrazione, da una pettinatura invece di un’altra, dal colore, dal taglio d’un abitosoltanto il corpo noi desideriamo, siamo pronti a perdonare ogni bruttura[66], ma non già la scelta d’un abito senza garbo né grazia, ma non già un tono di colore che strida. La civetta ha di tutto ciò perfetta conoscenza, ma anche l’innocente fanciulla lo sa per istinto, come gli animali. Ed ecco il motivo di quei maledetti jersey, di quegli abiti attillati, scollacciati, di quelle braccia nude, di quei seni mostrati. Le donne, specie quelle donne che hanno già esperienza di uomini, sanno bene che conversare su alti argomenti approda a ben poco, all’uomo non preme altro che il corpo, quanto può farlo risaltare, sia pure con mezzi artificiosi, e a ciò si adoperano le donne.” (p. 325).
La donna attraente ha per dote una potenza che non la abbandona del tutto nemmeno nelle situazioni più miserevoli, almeno finché le rimane la bellezza:”Anche la Màslova si era formata questa opinione nella sua vita e sul suo posto nel mondo. Era una prostituta, condannata alla galera, e ciò nonostante si era creata una concezione della vita per cui poteva approvare se stessa e perfino vantarsi della sua condizione davanti alla gente. Ecco in che consisteva questa concezione: l’interesse principale di tutti gli uomini, di tutti senza eccezione, -vecchi, giovani, ginnasiali, generali, colti, ignoranti,-sta nei rapporti sessuali con le donne attraenti, e perciò tutti gli uomini, pur fingendo di occuparsi di altre cose, in fondo desiderano questa sola. Essa, che era una donna attraente, poteva soddisfare o non soddisfare codesto loro desiderio, ed era quindi una persona importante e necessaria. Tutta la sua vita precedente e attuale le confermava la giustezza di tale opinione”[67].
Tra i due grandi romanzieri russi, Dostoevskij è stato il visionario dell’anima e Tolstoj piuttosto il veggente del corpo; più precisamente “di quel lato della carne che è rivolto verso lo spirito e di quel lato dello spirito che è rivolto verso la carne: regione misteriosa ove si compie, nell’uomo, la lotta fra la Bestia e Dio”[68].
La bellezza viene definita dal Lord Henry a Dorian Gray che ne è portatore:” una specie di genio-in verità più grande del genio, perché non ha bisogno di spiegazione. E’ una delle cose grandi del mondo, come la luce solare, o la primavera, o il riflesso nell’acqua cupa di quella conchiglia d’argento che chiamiamo l’una. Non è una cosa che si possa discutere. Ha un divino diritto alla regalità. Quelli che la possiedono sono principi“[69].
A favore del genio si può dire del resto che è meno effimero della bellezza la cui caducità infatti è deplorata dallo stesso esteta di O. Wilde:” Sì, gli dèi furono benigni con voi, Gray. Ma gli dèi, dopo breve tempo rivogliono i loro doni. Avete soltanto pochi anni per vivere veramente. Quando la vostra gioventù se ne sarà andata, avrete perduto anche la vostra bellezza, e vi renderete conto d’un tratto che non ci sono più vittorie per voi…Perché la vostra gioventù durerà un tempo così breve-così breve! Gli umili fiori di prato avvizziscono, ma rifioriranno ancora. Quest’altro giugno l’acacia sarà d’oro, come è ora…Ma noi non torniamo mai alla nostra giovinezza. L’onda di gioia che pulsa in noi a vent’anni, si fa tarda. Le membra non ci ubbidiscono più, i sensi si consumano. Diventiamo ripugnanti fantocci, perseguitati dal ricordo delle passioni di cui abbiamo avuto timore e delle squisite tentazioni alle quali non avemmo il coraggio di cedere. Gioventù! Gioventù! Non c’è nulla al mondo che valga la giovinezza!”(p. 32).
O. Wilde, come Nietzsche, giustifica la vita solo come fenomeno estetico.
“E’ cosa abbastanza strana, per quanto ben comprensibile, che la prima forma in cui lo spirito europeo si è ribellato all’età borghese sia stato l’estetismo. Non a caso ho nominato insieme Nietzsche e Wilde come ribelli, e propriamente ribelli in nome della bellezza”[70].
A proposito del rapporto tra bellezza e genio, Leopardi dà la precedenza alla prima nell’Ultimo canto di Saffo dove afferma che il potere è dei belli:”Alle sembianze il Padre,/alle amene sembianze eterno regno/diè nelle genti; e per virili imprese,/per dotta lira o canto,/virtù non luce in disadorno ammanto,” (vv. 50-54), mentre Tolstoj in Guerra e pace (1863-1869) sembra sganciare il fascino dall’intelligenza, almeno in una ragazza giovane: a Maria Bolkonski che ha domandato se Natascia sia intelligente, Pierre risponde:”Penso di no…non credo che si degni di essere intelligente…E’ affascinante, nient’altro” (p. 825).
Anche Pavese nega la forza erotica dell’ingegno:” Non c’è idea più sciocca che credere di conquistare una donna offrendole lo spettacolo del proprio ingegno. L’ingegno non corrisponde in questo alla bellezza, per la semplice ragione che non provoca eccitamento sensuale; la bellezza sì“[71]. Probabilmente Pavese non aveva abbastanza ingegno.
Comunque queste affermazioni ci portano a riflettere su quella che si potrebbe definire la giustificazione estetica dell’esistenza umana.
Solo la bellezza autorizza la vita. Questo afferma l’Aiace di Sofocle prima di suicidarsi: :”ajll j hj; kalw'” zh’n hj; kalw'” teqnhkevnai– to;n eujgenh’ crhv” ma il nobile deve o vivere con stile, o con stile morire. (vv.479-480). Quando si vive fuori dalla bellezza insomma la morte è una liberazione.
Lo ricorda anche la principessa troiana Polissena alla madre Ecuba , nella tragedia di Euripide: per chi non è abituato a mali oltraggiosi è meglio morire:”to; ga;r zh’n mh; kalw'” mevga” povno””
( v. 378), infatti vivere senza bellezza è una grande fatica.
Questo culto della bellezza in generale, e umana- femminile in particolare, quale antidoto al dolore della vita viene ribadito da Foscolo nell’Ode All’amica risanata, splendidissima donna nella quale, dopo la malattia “beltà rivive,/ l’aurea beltate ond’ebbero/ristoro unico a’ mali/le nate a vaneggiar menti mortali” (vv. 9-12).
Di solito gli autori maschi non omosessuali invero sono meno elogiativi o perfino poco indulgenti verso un bell’aspetto maschile che può diventare addirittura un disvalore.
Archiloco ha fama di avere inventato il tovpo” del miles gloriosus con il frammento 60 D. :”non amo lo stratego grande né dall’incedere tronfio/né compiaciuto dei riccioli, né ben rasato;/ma per me sia pur piccolo, e storto di gambe/a vedersi, però che proceda con sicurezza sui piedi, e sia pieno di cuore/”[72].
Qui la sostanza viene preposta all’apparenza: il poeta sgonfia il falso eroe facendone una caricatura che anticipa quella plautina.
Invero il guerriero non appariscente ma ardimentoso fa capolino già nel quinto canto dell’Iliade quando Atena ricorda a Diomede il valore del padre Tideo che era piccolo di corpo ma pugnace ( “Tudeuv” toi mikro;” me;n e[hn devma”, ajlla; machthv””, 801), e pure forte di animo ( auta;r oJ qumo;n e[cwn oJ;n karterovn”, 806).
Nel terzo canto Priamo chiede a Elena di identificare i capi dei guerrieri Achei visibili dalla torre presso le porte Scee; uno gli parve “meivwn me;n kefalh’/ jAgamevmnono” jAtreïdao,/ eujruvtero” d& w[moisin ijde; stevrnoisin ijdevsqai” (vv. 193-194), più piccolo della testa di Agamennone Atride, ma più largo di spalle e di petto a vedersi. La maliarda rispose che quello era Odisseo esperto di ogni sorta di inganni e di accorti pensieri (v. 202).
Quindi Antenore aggiunge che egli l’aveva visto una volta a Troia, in ambasciata con Menelao, e quando i due erano seduti, era più maestoso Odisseo, ma quando stavano in piedi, Menelao lo sovrastava delle larghe spalle (“stavntwn me;n Menevlao” uJpeivrecen eujreva” w{mou””, v. 210). Ulisse, in piedi, se stava zitto, sembrava un uomo ignorante o addirittura uno furente e pazzo, ma, quando parlava, dal petto mandava fuori parole simili a fiocchi di neve d’inverno (Iliade, III, v. 222), ossia manifestava la potenza della natura, e allora non si provava più meraviglia per l’aspetto.
Plinio il giovane dà una spiegazione di questo stile oratorio affermando di preferire fra tutte “illam orationem similem nivibus hibernis, id est, crebram et assiduam, sed et largam, postremo divinam et caelestem ” (I, 20), quell’eloquenza simile alle nevi invernali, cioè densa e serrata, ma anche copiosa, dopo tutto divina e scesa dal cielo.
Alcinoo elogia Odisseo dicendogli che, al pari di un aedo, ossia di Demodoco-Omero, costruisce il discorso con arte e possiede bellezza di parole, morfh; ejpevwn e saggi pensieri, frevne” ejsqlaiv (Odissea, XI, 367).
Ulisse dunque non è bello ma è l’eroe e l’esteta della parola.
Sotto questo aspetto egli prefigura il capo della povli” democratica nella quale la forza verbale sarà decisiva per il successo dell’uomo politico. “Il sistema della polis implica prima di tutto una straordinaria preminenza della parola su tutti gli altri strumenti del potere. Essa diventa lo strumento politico per eccellenza, la chiave di ogni autorità nello Stato, il mezzo di comando e di dominio su altri. Questa potenza del linguaggio-di cui i Greci fecero una divinità: Peitho , la forza di persuasione-ricorda l’efficacia delle parole e delle formule in certi rituali religiosi, o il valore attribuito ai “detti” del re quando egli pronuncia sovranamente la themis ; in realtà, tuttavia, si tratta di una cosa affatto diversa. Il linguaggio non è più la parola rituale, la formula giusta, ma il dibattito contraddittorio, la discussione, l’argomentazione. Presuppone un pubblico al quale esso si rivolge come a un giudice che decide in ultima istanza, per alzata di mano, tra i due partiti che gli sono presentati: è questa la scelta puramente umana che misura la forza di persuasione rispettiva dei due discorsi, assicurando la vittoria di uno degli oratori sul suo avversario…Tra la politica e il logos c’è così un rapporto stretto, un legame reciproco. L’arte politica consiste essenzialmente nel maneggiare il linguaggio“. Così J. P. Vernant[73]. Dopo averlo citato, aggiungerei del resto che anche l’arte erotica e diverse altre consistono in buona parte nel maneggiare il linguaggio .
Una qualità che Ovidio considera basilare per la seduzione :”non formosus erat, sed erat facundus Ulixes,/et tamen aequoreas torsit amore deas “[74], bello non era ma era bravo a parlare Ulisse, e in ogni caso fece contorcere d’amore le dee dell’acqua (Ars amatoria , II, 123-124). Si potrebbero commentare queste parole di apprezzamento dell’intelligenza di Odisseo che, come abbiamo visto, non era prestante, con una sentenza del discorso parenetico di Isocrate (o di un suo allievo) A Demonico :” mevgiston ga;r ejn ejlacivstw/ / nou'” ajgaqo;” ejn ajnqrwvpou swvmati” (40), una cosa grandissima in una piccolissima è infatti una mente valida in un corpo di uomo.
Il terzo canto dell’Iliade propone il contrasto tra apparenza e sostanza anche quando Ettore rinfaccia a Paride (v. 39) di essere un donnaiolo (gunaimanev”) e seduttore (hjperopeutav) di aspetto splendido (ei’jdo” a[riste) ma senza valore né forza nel cuore (45), capace di portare via donne di uomini bellicosi ma non di affrontarli. Allora Paride gli risponde di non biasimarlo e non rinfacciargli i doni amabili dell’aurea Afrodite (mhv moi dw’r j ejrata; provfere crusevh” jAfrodivth””, 64): nemmeno lui, Ettore, disprezza i magnifici doni degli dèi (qew’n ejrikudeva dw’ra, 65) che del resto nessuno può scegliersi.
Il donnaiolo effemminato.
C’è da notare che il donnaiolo dipende da Afrodite, una divinità femminile, ed è anche effemminato, così è dichiaratamente Egisto, l’amante di Clitennestra: nello stesso tempo effemminato e donnaiolo:
Nell’esodo dell’Agamennone di Eschilo, che drammatizza il ritorno e l’uccisione del re, il coro di vecchi argivi lo apostrofa chiamandolo donna (guvnai, v. 1625) e aggiungendo: tu che stavi in casa disonorando il letto dell’eroe, hai progettato questa morte contro l’eroe condottiero? Alla fine del dramma, le ultime parole del coro ribadiscono il vituperio verso l’assassino del re:”kovmpason qarsw’n, ajlevktwr-wJvste qhleiva” pevla””, (vv. 1672-1673), vantati arditamente, come un gallo presso la femmina.
“Nella coppia Egisto-Clitennestra, è Clitennestra l’uomo, è Egisto la donna[75]. Tutti i poeti tragici concordano nel dipingere Egisto come un effemminato, un vigliacco, un voluttuoso, un donnaiolo, che si fa strada per mezzo delle donne e non conosce, in materia di armi e di battaglie, altro che quelle di Aphrodite[76]. Clitennestra invece pretende di assumere le virtù e i rischi di una natura pienamente virile[77]. Riflessiva, autoritaria e audace, fatta per comandare, essa respinge con alterezza tutte le debolezze del suo sesso; si ritrova donna-ci vien fatto chiaramente capire-soltanto a letto”[78].
Come si concilia l’effeminatezza con l’attrazione per le donne? Secondo Otto Weininger “sono proprio soltanto gli uomini con qualità femminili quelli che corrono continuamente dietro a qualche sottana e trovano il loro maggior interesse negli amori e nei rapporti sessuali”[79]. E’ una teoria non molto dissimile da quella che Platone attribuisce ad Aristofane nel Simposio : coloro che derivano dal taglio di un maschio tutto pieno , ossia gli omosessuali maschi, discendenti dal sole, sono i migliori tra i fanciulli e i giovani poiché sono i più virili per natura (“aJvte ajndreiovtatoi o[nte” fuvsei”, 192). Essi si comportano così non per impudenza ma per l’indole forte, generosa e virile, siccome amanti di ciò che è loro simile (“to; oJvmoion aujtoi'” ajspazovmenoi”). Sono i soli capaci di vita politica.
Gli eterosessuali invece discendono dalla luna e provengono dal taglio di quello che allora si chiamava androgino,: “filoguvnaikev” te eijsi kai; oij polloi; tw’n moicw’n ejk touvtou tou’ gevnou” gegovnasin, kai; oJvsai au’j gunai’ke” fivlandroiv te kai; moiceuvtrai ejk touvtou tou’ gevnou” givgnontai.”(191d-e), essi sono amanti delle donne e la maggior parte degli adulteri sono derivati da questo genere, e quante invece sono donne, amano gli uomini e sono adultere e derivano da questa razza.
Infine le donne provenienti dal taglio di una femmina integrale discendono dalla terra e diventano ejtairivstriai, lesbiche
Inoltre, come aveva ben sottolineato Jung, l’anima femminile-anima– è presente nell’uomo in modo rimosso ed è proprio per questa ragione che molti uomini cercano e trovano la loro anima nelle donne amate; nello stesso modo, lo spirito maschile intraprendente, energico-animus– è presente nelle donne in modo rimosso ed è per questo che molte donne cercano e trovano il loro animus nei loro uomini”[80].
Certamente Euripide aveva in mente il topos del “non bello ma buono”, quando nell’Oreste (del 408) elabora la così detta “teoria della classe media” e, presentando con simpatia il piccolo proprietario terriero il quale lavora la terra da sé ed è uno di quelli che, soli, salvano la città, si sente quasi in dovere di precisare che era un uomo di aspetto non attraente ma coraggioso (” morfh’/ me;n oujk eujwpov”, ajndrei’o” d& ajnhvr”, v.918).
Viceversa, ma sempre con un ricordo archilocheo, nella stessa tragedia viene ridicolizzato Menelao, lo spartano e marito di Elena odioso per avere provocato infiniti dolori ai figli di Agamennone. Il nipote Oreste lo sfida affermando che non lo teme e irridendolo:”venga avanti, pavoneggiandosi per i riccioli biondi sugli omeri” ( “ajll& i[tw xanqoi'” ejp& w[mwn bostruvcoi” gaurouvmeno”” v. 1532).
Cicerone riassume questo locus nel De finibus bonorum et malorum :”animi enim liniamenta sunt pulchriora quam corporis ” (III, 22, 75), infatti i lineamenti dell’anima sono più belli di quelli del corpo. Qui siamo nel campo dell’etica
Torniamo a quello militare: Svetonio nella Vita di Giulio Cesare (65) ricorda che il conquistatore delle Gallie “Militem neque a moribus neque a forma probabat, sed tantum a viribus “, non giudicava i soldati con la misura dei costumi né con quella dell’aspetto fisico ma solo con il metro della forza.
Tolstoj in Guerra e pace individua il militare bello e vano, un vero e proprio miles gloriosus francese e napoleonico, in Gioacchino Murat :” un uomo d’alta statura dal cappello adorno di piume, i capelli inanellati che gli piovevano sulle spalle. Indossava un mantello scarl’atto, e le lunghe gambe erano protese in avanti…in effetti costui era Murat, che ora aveva assunto la qualifica di re di Napoli…cosicché aveva un’aria più trionfante e imponente di quanto l’avesse prima…Alla vista del generale russo, con gesto regale e solenne, respinse indietro il capo con quei capelli a riccioli fluentisulle spalle…La faccia di Murat raggiava di stolida soddisfazione” (pp. 925-926).
Medea: l’infelice, fantastica donna oltraggiata [81].
Torniamo alla malafede degli uomini facendoci traghettare a Medea da Ovidio.
Nella XII Epistula delle Heroides questa si chiede perché le piacquero più del giusto (“plus aequoplacuere” ) i biondi capelli (flavicapilli), la bellezza (decor) del giovane e anche la linguae gratia ficta (vv. 13-14), il fascino ingannevole della lingua. L’eroe postclassico infatti non manifesta le sue migliori qualità nella pratica dell’agire, ma piuttosto nell’arte della parola, del persuadere, dell’ingannare.
Quindi la madre furente rimpiange la non avvenuta morte di Giasone esclamando:”Quantum perfidiae tecum, scelerate, perisset! ” (v. 21), quanta perfidia, scellerato, sarebbe morta con te!
Anche “l’infelice oltraggiata” Medea di Euripide, , ” Mhvdeia d j hJ duvsteno”
hjtimasmevnh-boa’/ me;n oJvrkou” , ajnakalei’ de; dexia’”-pivstin megivsthn, kai; qeou;” martuvretai-oiJva” ajmoibh'” ejx jIavsono” kurei'” (vv. 20-23), rinfaccia con grida i giuramenti, reclama il sommo impegno della mano destra, e chiama gli dèi a testimoni di quale contraccambio ella riceva da Giasone.- hjtimasmevnh: è part. perfetto medio da ajtimavzw, disonoro. Questo verbo è formato sulla radice tim- che si trova in timhv =onore, e in timwrevw (timhv+oJravw, custodisco)= vendico
Poco più avanti (v. 26) la nutrice afferma che Medea ha sentito di aver subìto torto (h/[/sqet j hjdikhmevnh).
Abbiamo avvicinato questa donna oltraggiata a Nastasja Filippovna dell’Idiota di Dostoevkij. Questa, una giovane donna bella, intelligente e fuori dal comune, odiava Totzkij, l’uomo ricco e potente che l’aveva sedotta, e disonorata da adolescente, quindi la manteneva nel lusso. Egli ne aveva paura.
“Totzkij ricordava che anche prima aveva avuto momenti in cui gli erano balenati alla mente strani pensieri, osservando, per esempio, gli occhi della fanciulla: vi si presentivano tenebre profonde e misteriose. Quello sguardo pareva un enigma viventetrascorsero cinque anni di quella vita a Pietroburgo, e si capisce che nel corso di quel tempo molte cose si precisarono. La posizione di Totzkij non era delle più invidiabili; il peggio era che, essendosi lasciato spaventare una volta, ormai non poteva più ritrovare la tranquillità. Aveva paura, senza poter precisare con sicurezza di che cosa; aveva semplicemente paura di Nastasja Filippovna”. Il seduttore si rese conto che la donna non tendeva nemmeno a farsi sposare da lui:”Gli sembrava possibile una sola spiegazione, e cioè che l’orgoglio illimitato di quell’oltraggiata e fantastica donna era giunto a tal punto di pazzia, ch’egli preferiva esprimergli una volta di più il proprio disprezzo col rifiuto, che consolidare per sempre la sua posizione, entrando a far parte d’un ceto sociale addirittura insperato per lei. Il peggio, in tutto ciò, era che Nastasja Filippovna aveva decisamente preso il sopravvento”[82].
-pivstin: corrisponde alla fides latina cui è etimologicamente imparentata: “Alla famiglia del lat. fides corrisponde in greco quella di peivqomai. La forma verbale appare in un primo tempo al medio; il presente attivo peivqw ‘persuadere’ è secondario; è stato ricostruito abbastanza tardi su peivqomai ‘obbedire’Questa radice fornisce un sostantivo astratto peiqwv ‘persuasione’ e un nome di azione pivsti” ‘confidenza, fede’ con un aggettivo pistov” ‘fedele’. Su pistov” si basa un nuovo presente, omerico pistou’n ‘impegnare alla fedeltà’, obbligare, legare con una promessa’ e anche pisteuvw ‘aver fede’ che ha prevalso”[83].
Più avanti Medea rinfaccerà direttamente a Giasone di avere fatto svanire la fede nei giuramenti:” o{rkwn de; frouvdh pivsti” ” (v. 492).
Essere fedele è predicato dei numi e dei loro discendenti:”qew’n pisto;n gevno” ” (Pindaro, Nemea X , v. 54), fida è la stirpe degli dèi
La protagonista del dramma euripideo viene definita da Snell “una donna non comune, di sinistra potenza” e di fronte alla quale il saggio e benpensante Giasone non è che un miserabile”[84].
Il contrasto tra i due viene interpretato politicamente e in maniera ancora molto attuale da P. P. Pasolini che fece una Medea cinematografica.
In una intervista a J. Duflot il regista dichiara che nel suo film ha voluto mettere in evidenza il contrasto tra la cultura razionale e pragmatica di Giasone e quella arcaica e ieratica della barbara:” Ho riprodotto in Medea tutti i temi dei film precedenti…Quanto alla pièce di Euripide, mi sono semplicemente limitato a qualche citazione…Medea è il confronto dell’universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l’eroe attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. E’ il “tecnico” abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo…Confrontato all’altra civiltà, alla razza dello “spirito”, fa scattare una tragedia spaventosa. L’intero dramma poggia su questa reciproca contrapposizione di due “culture”, sull’irrudicibilità reciproca delle due civiltà…potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del Terzo Mondo, di un popolo africano, ad esempio[85]“.
La nipote del sole è stata tradita e abbandonata, come si sa, e lamenta la rottura del vincolo coniugale da parte del marito: O grande Temi e Artemide signora/vedete quello che patisco, pur avendo legato/con solenni giuramenti /quell’esecrabile sposo? (“megavloi” o{rkoi”-ejndhsamevna to;n katavroton-povsin ;”vv. 161-163).-o{rko” è imparentato etimologicamente con ei{rgw, “chiudo” e con e{rko” , recinto, poiché il giuramento comporta l’innalzamento di barriere che precludano determinate esperienze.
{{ Orko” fu generato da [Eri” stugerhv , Contesa odiosa, assistita dalle Erinni, come punizione per gli spergiuri ( Esiodo, Teogonia, 231; Opere, vv. 803-804) e per giunta è in rapporto diretto con Zeus ( Edipo a Colono, v.1767:”cwJ pavnt& ajivwn Dio;” JvOrko”” e il giuramento che tutto ode, figlio di Zeus) il dio supremo il quale garantisce la santità e l’inviolabilità della giustizia. Chi parla sotto giuramento è oJvrkio” ed entra nell’ambito del sacro.
La giustizia viene menzionata, evocata e invocata più volte da Medea: la donna oltraggiata, appena compare in scena, dice:” Giustizia infatti non sta negli occhi dei mortali, (Divkh ga;r oujk e[nest’ ejn ojfqalmoi'” brotw’n)/se uno, prima di avere conosciuto bene gli affetti di un uomo/lo odia solo per averlo visto, senza averne ricevuto offesa alcuna”.
Medea contrappone la Giustizia all’utile di Giasone.
“Euripide mette accuratamente in rilievo che Medea è totalmente sciolta dai legami che proteggono l’individuo e gli possono dar sostegno. Essa ha tradito e abbandonato patria e famiglia per un legame del tutto personale: l’amore che l’univa a Giasone. Giasone non compie nessuna ingiustizia di fronte alla convenzione o alla legge, ma in favore di Medea parla un diritto più alto: il diritto naturale e umano. Essa non può valersi di nessun diritto valido, non può nemmeno appoggiarsi a una legge divina come l’Antigone di Sofocle, per controbattere le ragioni di Giasone. Il suo senso personale di giustizia si ribella, e in lei, la barbara, erompe in forma passionale. Giasone potrà dimostrare che la sua azione è stata saggia e vantaggiosa per entrambi, ma di fronte a questo più profondo e (secondo quanto lascia intendere Euripide stesso) più vero senso di giustizia, la sua figura ci appare assai meschina“[86].
Abbiamo detto nel primo capitolo che la mentalità arcaica di Medea si vede nelle sue preghiere antiche, nel suo invocare la Giustizia figlia di Zeus e la luce del sole (v. 764). Nel film di Pasolini che impiega, verbum de verbo, solo questo verso della tragedia di Euripide, e per tre volte da parte di Medea per giunta echeggiata dal Coro[87], il centauro rileva ” il suo disorientamento di donna antica in un mondo che ignora ciò in cui lei ha sempre creduto”.
Il culto del sole è un tratto arcaico che attraversa molti autori della letteratura europea[88]. Nella Medea di Pasolini il sole invitto invita Medea a tornare nelle sue “vecchie spoglie”. Questo suo arcaismo la differenzia dal popolo civilizzato di Corinto della cui intolleranza nei confronti di tale diversità il re si fa portavoce dell’intolleranza:”E’ noto a tutti in questa città che, come barbara, venuta da una terra straniera, sei molto esperta nei malefici. Sei diversa da tutti noi: perciò non ti vogliamo tra noi“[89].
Una Medea che conosce la carità è quella di Christa Wolf. Si vede bene da un monologo di Acamante, l’astrologo di corte del re di Corinto. “Giacché tutto dipende da che cosa si vuole davvero e da che cosa si considera utile, dunque buono e giusto. Questa frase Medea non la contestò del tutto, respinse solo quell’importante e centrale “dunque”. Ciò che era utile non doveva necessariamente essere buono. Dèi! Come ha tormentato me e soprattutto se stessa con quella parolina “buono”! Si affannava a spiegarmi quel che, a quanto pare, intendevano con buono in Colchide. Buono era ciò che favoriva il dispiegamento di tutto l’esistente. Dunque la fertilità, dissi. Anche, disse Medea, e cominciò a parlare di certe forze che legavano noi umani a tutti gli altri esseri viventi e che dovevano fluire liberamente perché la vita non ristagnasse”[90].
Torniamo alla tragedia di Euripide il cui discorso è forse meno sofisticato di quello del regista. Qui le chiusure e i vincoli dei giuramenti non bastano poiché il legame (desmov”) di fedeltà non allaccia il cuore dell’uomo che pensa solo all’utile.
Gli déi non rispondono poiché Medea ha fatto lo sbaglio di fidarsi di un mascalzone e gli errori si pagano.
Del resto lei ha tradito il padre e ammazzato il fratello. Il coro più avanti lamenta che è generale la caduta del rispetto dei giuramenti:”bevbake d j o{rkwn cavri” ” (439) e non rimane il ritegno (aijdwv” ) nella Grecia.
Ma tra i due amanti-antagonisti il personaggio odioso senz’altro è Giasone:”Medea si rivela fin dal principio come una donna non comune, di sinistra potenza, e di fronte ad essa il saggio e benpensante Giasone non è che un miserabile. Questa raffigurazione che Euripide ci dà dell’eroe del mito greco e della maga barbara, distribuendo luci ed ombre proprio all’opposto di come accadeva nella veneranda tradizione, ci permette di capire perché Aristofane rimproverasse al poeta di aver gettato nel fango le nobili figure del mito. Ma Euripide non lo fa per l’infame piacere di demolire ogni grandezza, al contrario (e qui Nietzsche ha visto più a fondo di Aristofane e di Schlegel) lo fa con un’intenzione morale: le credenze antiche vengono smascherate e demolite, ma per far posto a un senso di giustizia più vero e per porre un fondamento a questo nuovo dovere. E chi potrà sottrarsi all’impressione che questa Medea non abbia davvero la ragione dalla sua, di fronte a questo Giasone?”[91].
Vediamo qualche cosa su A. W. Schlegel che nel 1808 “tenne il suo corso sull’arte drammatica e sulla letteratura. Non poteva esimersi (così egli disse) dal muovere molte e severe critiche all’arte di Euripide. Euripide, secondo lui, promuove “il libero pensiero nella morale”; “egli non tende a rappresentare una stirpe d’eroi elevantesi per possente statura al di sopra degli uomini del presente, si sforza al contrario di colmare l’abisso che separa i suoi contemporanei da quel mondo meraviglioso, e spia gli dèi e gli eroi negli aspetti della loro vita intima. E di fronte a questa indiscrezione, come si dice, non c’è grandezza che resista“. “Pare che Euripide si compiaccia di ricordare continuamente ai suoi spettatori: guardate, anche costoro erano uomini, avevano le stesse vostre debolezze, agivano secondo i vostri stessi impulsi, proprio come il più umile dei mortali. E’ per questo che egli si compiace di mettere a nudo i difetti morali dei suoi personaggi, e glieli fa anzi mettere in mostra nel corso di ingenue confessioni. Non di rado, essi non sono soltanto volgari, ma se ne vantano addirittura, quasi fosse un dovere esser taliSchlegel dunque-riassumiamo-accusa Euripide di essere realista, razionalista e immoralista. Sono le medesime accuse che gli muoveva Aristofane, e Schlegel stesso lascia chiaramente intendere che il suo giudizio deriva da Aristofane. Sono motivi che ritornano nello scritto giovanile di Nietzsche: La nascita della tragedia“.
Su Aristofane e Nietzsche quali critici di Euripide torneremo, adesso vediamo un numero congruo di versi della sua tragedia che, con le Baccanti , è forse più rappresentata e nota.
Prologo 1-95.
Nutrice.
Oh se lo scafo di Argo non fosse passato a volo attraverso
le cupe Simplegadi per la terra dei Colchi,
e nelle valli del Pelio non fosse caduto mai
il pino reciso, e non avesse attrezzato di remi le mani
degli eroi ottimi che andarono a cercare il vello
tutto d’oro per Pelia. Infatti la signora mia
Medea non avrebbe navigato verso le torri della terra di Iolco
sconvolta nell’animo dal desiderio di Giasone;
né dopo avere convinto le figlie di Pelia ad ammazzare
il padre sarebbe venuta ad abitare questa terra Corinzia
con il marito e i figli, cercando di riuscire gradita
ai cittadini dei quali giunse alla terra in esilio
e pur rimanendo se stessa di convenire in tutto a Giasone;
e questa appunto è la più grande salvezza,
quando la donna non sia in disaccordo con l’uomo. 15
Ma ora tutto è odio e stanno male gli affetti intimi.
Infatti dopo avere tradito i figli suoi e la signora mia
Giasone con nozze regali si stende nel letto 18
sposando la figlia di Creonte che comanda su questa terra.
E Medea l’infelice donna oltraggiata
rinfaccia con grida i giuramenti, reclama il sommo impegno
della mano destra, e chiama gli dèi a testimoni
di quale contraccambio ella riceva da Giasone. 23
E giace senza cibo, abbandonato il corpo alle sofferenze,
struggendo tutto il tempo in lacrime Zambrano p. 302
da quando si è accorta di ricevere torto dal marito.
E non solleva lo sguardo né stacca il volto
da terra; e come rupe o marina
onda ascolta gli amici consigliata,
tranne quando, girato il bianchissimo collo,
rivolta a se stessa, rimpiange suo padre
e la terra e la casa che tradì nel venir via
con un uomo che ora la tiene in dispregio. 33
Ha preso coscienza la sventurata sotto il colpo della sciagura
che cosa significhi essere privi della patria terra.
Poi odia i figli né si rallegra a vederli.
Temo che lei non progetti qualcosa di inaudito;
<infatti tremendo è il suo animo, e non tollererà di subire
l’oltraggio: il la conosco, e ho paura di lei
che affilata spinga la spada nel fegato,
salita in silenzio alla casa dove è steso il letto,
o pure che ammazzi il tiranno e quello che l’ha sposata
e quindi si tiri addosso una sventura più grande.> 44
Siccome è tremenda: nessuno certo che abbia messo insieme
una relazione di odio con lei, riporterà facilmente il canto della vittoria. 46
Ma ecco i figli che hanno smesso di fare le corse
e vengono qua, per nulla pensosi dei mali
della madre: poiché un animo giovane non ha preso l’uso di soffrire. 49
Pedagogo
Vecchio bene della casa della padrona mia, 50
perché stai sulla porta a vivere questa
desolazione, lamentandoti delle le sventure soltanto con te stessa?
Come mai Medea vuole rimanere sola, divisa da te?
Nutrice.
O vecchio compagno dei figli di Giasone,
per i servi buoni sono una sciagura le brutte cadute
dei padroni e ne toccano gli animi.
Io infatti sono giunta a tal punto di sofferenza,
che mi ha invaso il desiderio di dire alla terra
e al cielo, giunta qui, i casi della signora.
Pedagogo
Non ancora dunque l’infelice cessa di lamentarsi?
Nutrice
Ti invidio! La pena è all’inizio e non ancora all’apice.
Pedagogo.
O stolta-se occorre dire questo nei confronti dei signori:
poiché nulla sa dei mali più recenti.
Nutrice.
Che c’è, o vecchio? non negarmi un chiarimento.
Pedagogo.
Niente: ritratto anche le parole dette prima.
Nutrice.
No, per il mento, non avere segreti per la tua compagna di schiavitù:
poiché, se necessario, coprirò questi fatti con il silenzio. 66
Pedagogo.
Ho sentito dire da un tale, senza avere l’aria di ascoltare,
andato dove si gioca a scacchi, precisamente dove siedono
i più vecchi, presso la sacra fonte di Pirene,
ho sentito che Creonte il signore di questa terra
intende cacciare questi bambini con la madre.
Però se questa notizia sia vera
non so; vorrei che non lo fosse.
Nutrice.
E tollererà Giasone che i figli soffrano
questo, sia pure in disaccordo con la madre? 75
Pedagogo.
Le antiche parentele cedono alle nuove,
e quello non è amico delle nostre case.
Nutrice.
Siamo perduti allora, se un male nuovo
aggiungeremo all’antico, prima che questo sia esaurito. 80.
Pedagogo.
Ma tu comunque, poiché non è opportuno che la signora
lo sappia, stai calma e fai silenzio riguardo alla notizia.
Nutrice
O figli, sentite com’è il padre verso di voi?
vada in malora magari no: infatti è il mio padrone;
nondimeno è provato che è un infame verso i suoi cari.
Pedagogo
Chi non lo è tra i mortali? Solo ora prendi coscienza di questo,
che ciascuno ama se stesso più del prossimo?
(alcuni magari a ragione, ma altri anche per lucro),
se questi bambini qui per un letto il padre non li ha cari?
Nutrice.
Andate, ché sarà meglio, fuori dalla casa, o figli.
Tu, più che puoi, tieni isolate queste creature
e non lasciarli andare vicino alla madre furente.
Già infatti l’ho vista mentre fissava con furia taurina
questi bambini, come se avesse in animo di fare qualcosa; e non cesserà
dall’ira, lo so bene, prima di avere assalito qualcuno.
Spero lo faccia almeno con i nemici, non con i suoi cari. 95.
Canto anapestico che precede la Parodo (vv 96-130).
Medea <da dentro>.
Ahi,
messa male, me disgraziata per le tribolazioni,
ahimé, ahimé, come potrei morire?
Nutrice.
Ecco qui, cari bambini: la madre
agita il cuore, agita la collera.
Affrettatevi più rapidamente dentro la casa
e non avvicinatevi al suo sguardo,
e non accostatevi a lei, ma guardatevi
dall’indole selvaggia e dalla natura terribile
di una mente arrogante.
Andate ora, ritiratevi dentro al più presto. 105
E’ chiaro: il nembo di gemiti che comincia a levarsi
al più presto avvamperà con maggior impeto: che cosa mai farà
quell’anima fortemente viscerale e implacabile
ora che è morsa da atti infami?
Medea.
Ahi,
ho preso a soffrire sventurata ho preso a soffrire pene degne
di grandi lamenti: o maledetti
figli di madre odiosa possiate morire
con il padre, e tutta la casa vada in malora. 114
Nutrice.
Ahimé, ahimé, ahi sventurata.
In che cosa secondo te i figli hanno parte
della colpa del padre? Perché li odi? Ahimé,
figli, come sono angosciata per timore che abbiate a soffrire qualcosa!
Terribili sono le volontà dei potenti e poiché di rado
come che sia, sottostanno, e spesso spadroneggiano,
difficilmente elaborano le ire.
Infatti essere abituati a vivere tra uguali,
è meglio: a me dunque sia concesso invecchiare
non tra le grandezze ma in stato di sicurezza almeno. 124
In primo luogo infatti già dire il nome della misura
è un segno di supremazia, farne uso poi è di gran lunga
la cosa migliore per i mortali; invece quello che eccede
in nessuna occasione ha valore per i mortali,
anzi ripaga con più gravi sciagure
quando insorge l’ira di un dio contro una stirpe. 130.
Parodo vv. 131-213.
Coro
Ho sentito la voce, ho sentito le grida
dell’infelice donna della Colchide; e ancora non
si è mitigata; su, vecchia, parla.
Infatti ho sentito un gemito dentro
la casa a due porte, e non provo piacere, o donna,
per i dolori della casa,
siccome in me si è formata amicizia. 138
Nutrice
Non c’è più la casa: questi affetti sono già dispersi.
Lui infatti lo tiene il letto dei padroni,
lei nella camera nuziale strugge la vita,
la signora, per nulla confortata nel cuore
dalle parole di nessuno degli amici.
Medea.
Ahi,
la fiamma del cielo mi passi attraverso
la testa; che ci guadagno a vivere ancora? 145
Ahi ahi: vorrei annientarmi nella morte
lasciando una vita odiosa.
Coro.
Sentivi, o Zeus e terra e luce,
quale pianto fa risuonare
l’infelice sposa? 150
Quale brama puoi avere tu
dell’orribile letto, o demente?
verrà in fretta il termine di morte;
non chiederlo pregando.
E se il tuo sposo onora nuovi letti,
non affilare l’ira perciò contro di lui
Zeus ti aiuterà a ottenere giustizia per questo.
Non struggerti troppo rimpiangendo il tuo ex compagno di letto.
Medea
O grande Temide e potente Artemide
vedete quello che soffro, sebbene avessi legato con solenni
giuramenti a quell’esecrabile
sposo? che io vorrei vedere un giorno
con la sposa annientati in questa stessa casa,
dati i torti che ardiscono infliggermi per primi. 165.
O padre, o città, da cui venni via
con vergogna ammazzando mio fratello.
Nutrice.
Sentite quali parole dice e invoca con grida
Temide, le rivolge preghiere, e Zeus che è ritenuto
dai mortali custode dei giuramenti? 170
Non è possibile che la signora contenga
l’ira in una piccola vendetta.
Coro.
Come potrebbe venire alla nostra
presenza e accogliere suono
di parole articolate
se in qualche modo possa deporre l’ira
opprimente e l’ostinazione dell’animo?
Almeno la mia premura
non faccia difetto agli amici.
Su va’ e falla venire fuori
dalla casa: dille che anche qui c’è amicizia, 181
e affrettati prima che faccia qualcosa di male
a quelli di dentro: infatti ecco qui il dolore che si scaglia con grande impeto.
Nutrice.
Lo farò; ma temo di non riuscire a persuadere
la mia signora;
comunque aggiungerò questo faticoso favore.
Certo ella lancia sui servi sguardi bestiali
di leonessa appena sgravata, quando uno
per farle un discorso le si avvicina. 190
E stolti chiamando e per niente saggi
i mortali di un tempo non sbaglieresti,
loro che per le feste e per i banchetti e le cene
trovarono i canti, un ascoltare che rallegra la vita;
mentre nessuno trovò il modo di fare cessare
con la poesia e con i canti dai molti toni
gli odiosi affanni dei mortali, per cui morti
e orribili casi fanno cadere le stirpi.
Eppure questo sì sarebbe un guadagno guarire
con i canti i mortali; ma dove sono i lauti banchetti
imbanditi perché elevano invano la voce? 201
Infatti l’abbondanza che c’è della mensa
porta gioia di per sé ai mortali. 203.
Coro.
Un fragore sentivo risuonare di lunghi lamenti,
acuti dolori affannosi chiamano con grida
il traditore nel letto, lo sposo infame;
chiama a testimoni gli dèi la vittima dell’ingiustizia,
la figlia di Zeus custode dei giuramenti, Temide, che la fece andare
nell’Ellade sull’altra sponda
attraverso il mare notturno, sul salso
stretto del Ponto che non finiva mai. 213.
Primo episodio.
Medea.
Donne di Corinto, sono venuta fuori dalla casa
perché non abbiate a rimproverarmi nulla: so infatti che molti mortali
diventano altezzosi, gli uni lontani dagli sguardi, solitari,
altri invece emarginati tra gli stranieri; altri ancora per il muoversi riservato
si procurarono cattiva fama di noncuranza..
Giustizia infatti non sta negli occhi dei mortali,
se uno, prima di avere conosciuto bene gli affetti di un uomo
lo odia solo per averlo visto, senza averne ricevuto offesa alcuna.
D’altra parte lo straniero deve adeguarsi con sforzo alla città:222
nemmeno approvo il cittadino che divenuto arrogante
è duro verso i concittadini per ignoranza.
Questa faccenda inaspettata piombatami addosso
mi ha distrutto la vita; sono a pezzi e buttata via
la gioia di vivere, desidero morire, amiche.
Quello in cui c’era per me tutta la vita, lo so bene,
si è rivelato il peggiore degli uomini, il mio sposo. 229
Fra tutti quanti gli esseri sono vivi e hanno raziocinio,
noi donne siamo la creatura più sofferente:
noi che innanzitutto dobbiamo comprare un marito
con gran dispendio di ricchezze, e prenderlo come padrone/
del corpo, e questo è un male ancora più doloroso del male./234
E in questo sta la gara massima, prenderlo buono
o cattivo. Infatti non danno gloria le separazioni
alle donne, e non è possibile ripudiare lo sposo.
Quella poi giunta tra nuovi costumi e leggi
bisogna che sia un’indovina, se non ha appreso da casa. come trattare nel modo migliore il marito. 240
E se con noi che ci affatichiamo in questo con successo, il coniuge convive, sopportando il giogo non per forza, la vita è invidiabile; se no, bisogna morire.
Un uomo invece, quando gli pesa stare insieme a quelli di casa,/
uscito fuori, depone la noia dal cuore
(volgendosi a un amico o a un coetaneo);
per noi al contrario è necessario puntare su una sola persona.
Dicono di noi che viviamo una vita senza pericoli
in casa, mentre loro combattono con la lancia, pensando male: poiché io preferirei stare
tre volte accanto a uno scudo che partorire una volta sola” 251.
Ecco, in Anna Karenina, il parto doloroso della giovane moglie di Levin che partecipa, mentalmente, alla sofferenza, forse ingrandendola :” La faccia di Kitty non c’era più. Al posto dov’era prima, c’era qualcosa di terribile e per l’aspetto di tensione e per il suono che di là usciva. Egli lasciò cadere la testa sul legno del letto, sentendo che il cuore gli si spezzava. L’orribile urlo non taceva, si era fatto ancora più orribile, e, come se fosse arrivato all’ultimo limite dell’orrore, a un tratto si spense” (p. 720).
-ajqliwvtaton: è superlativo di a[ql’io” , quello la cui vita è tutta una lotta (a[qlon), come viene chiarito sotto.-gnwvmhn: Dodds chiarisce il significato di questo termine partendo da un verso (176) dell’Antigone:”yuchvn te kai; frovnhma kai; gnwvmhn”, gli impulsi e il pensiero e l’intelletto. Quando Sofocle parla di mettere alla prova yuchvn te kai; frovnhma kai; gnwvmhn[92], dispone gli elementi del carattere secondo una scala che va dall’emotivo (yuchv)) all’intellettuale (gnwvmh)) passando per un termine medio, frovnhma, che nell’uso implica gli altri due”[93].
-privasqai è infinito di privamai, e povsi” , sposo, come il suo corrispondente femminile povtnia , significa potente. Dalla radice indoeuropea *potis si forma anche il latino potis, e , “che può”, “potente”. Il concetto viene ribadito e rafforzato dal secondo emistichio: despovthn te swvmato” , ” e padrone del corpo. Medea dirà a Egeo che il suo è il “kavkisto”pavntwn povsi” ” (690), lo sposo peggiore di tutti.
Che la donna debba comprare il marito significa che doveva portare la dote.
Facciamo un piccolo excursus sul’ argomento dote.
Nel secondo canto dell’Odissea Eurimaco consiglia a Telemaco di rimandare la madre dal padre : per lei i pretendenti prepareranno doni nuziali, quanti è giusto che accompagnino una cara figliola (vv. 196-197). Qui non è chiaro chi paghi la dote: dal verso 196 sembra il nuovo sposo; dal 197 il padre. Pare che Eurimaco comunque voglia dire a Telemaco che non starà al figlio dotare la madre. L’uso che sia il marito a portare la dote alla sposa risulta da vari passi dell’Odissea (p. e. VIII 318 , XI 282 , XV 16 sgg) e, nella letteratura latina, si trova raccontato da Tacito a proposito delle “sane” donne dei Germani:”Dotem non uxor marito sed uxori maritus offert ” (Germania , 18, 2), la dote non è la moglie che la porta al marito, ma il marito alla moglie. I doni nuziali dello sposo del resto sono strumenti di lavoro e di guerra e in cambio la moglie porta qualche arma:”Ne se mulier extra virtutum cogitationem extraque bellorum casus putet ” (18, 3),perché la donna non si consideri esente dai pensieri di valore e dalle vicende della guerra. Infatti le donne dei Germani dovevano tanto partorire quanto fare la guerra.
Nell’Iliade Andromaca è a[loco” poluvdwro” (VI, 394) la sposa dai molti doni, fatti da Ettore, il quale la portò via dalla casa di Eezione dopo che ebbe dato “muvria eJvdna” (XXII, 472), infiniti regali di nozze.
A proposito di dote, ma anche di tolleranza nei confronti di culture diverse, un valore che diventa sempre più raro[94], prezioso e necessario alla sopravvivenza della nostra specie, Erodoto racconta di un novmo” babilonese che anzi egli considera sofwvtato”, avvedutissimo (I, 196): lì le ragazze belle vengono messe in vendita per essere sposate. Le brutte si comprano il marito con il denaro ricavato:”to; de; crusivon ejgivneto ajpo; tw’n eujeidevwn parqevnwn, kai; ouJvtw” aiJ eu[morfoi ta;” ajmovrfou” kai; ejmphvrou” ejxedivdosan” (I, 196, 3), il denaro veniva dalle ragazze di bell’aspetto, e così le belle davano in matrimonio le brutte e le storpie. Questo, secondo Erodoto, era il loro costume antico più bello (kavllisto” novmo”), mentre è meno encomiabile, aggiunge, è quello recente di prostituire le figlie. La parola novmo” si forma sulla radice nem(e) -/nom -/nwm – che è la base anche di nomivzw, “ho come uso”, nevmw, “distribuisco”, nevmesi” , “distribuzione”, “vendetta”.
Aristofane si ricorda forse di questo racconto e lo utilizza comicamente nelle Ecclesiazuse (del 392) quando Prassagora annuncia che mette le donne in comune per gli uomini, e viceversa: chi vorrà avere un rapporto amoroso con una persona bella, prima dovrà fare sesso con una brutta (vv. 616-617).
Così, commenta sarcasticamente Blepiro, il marito di Prassagora, alla donne va bene poiché nessuna di loro rimane a buco vuoto (v. 624).
Sul tema della dote donata dal padre della sposa ritorna Euripide nell’Ippolito (del 428) durante l’invettiva del figlio di Teseo contro le femmine umane. Il ragazzo sdegnato con la matrigna e con tutto il “popolo nemico”[ 95] delle donne, individua un segno del fatto che la donna è un gran male (kakovn mevga, v. 627) nell’uso per cui il padre il quale l’ha generata e allevata, aggiungendo beni dotali (fernav”) la sistema in un’altra casa al fine di liberarsi da un male ( “wJ” ajpallacqh’/ kakou'”, v. 629). Del resto poi quel virgulto pernicioso, quell’idolo maligno si farà adornare di gioielli dal marito folle.
Ma ben diverso è il punto di vista della barbara Medea di Euripide ai cui versi ritorniamo. Interessante al 235 è l’espressione-ajgw;n mevgisto”: (gara massima) che ribadisce il significato etimologico di ajqliwvtaton (v. 231).
Si ricorderà del resto il mevga” ga;r ajgw;n gavmo” ajnqrwvpwn” di Antifonte sofista.
I Greci avevano un atteggiamento agonistico in ogni situazione della vita, come si sa, ma questa fantastica donna oltraggiata afferma che la gara più dura è il matrimonio.
Sulla mentalità agonistica dei Greci. vale la pena di soffermarsi un poco con un’altra digressione
Nell’ottavo canto dell’Odissea il massimo vanto di Ulisse davanti ai Feaci è quello di essere valente in tutte le gare quante ce ne sono tra gli uomini ( met j ajndravsin o{ssoi a[eqloi, v. 214).
Secondo Nietzsche l’aspetto agonistico con volontà di primeggiare è una caratteristica precipua dei Greci antichi: “Poiché il volere vincere e primeggiare è un tratto di natura invincibile, più antico e originario di ogni gioia e stima di uguaglianza. Lo stato greco aveva sanzionato fra gli uguali la gara ginnastica e musica, aveva cioé delimitato un’arena dove quell’impulso poteva scaricarsi senza mettere in pericolo l’ordinamento politico. Con il decadere finale della gara ginnastica e musica, lo stato greco cadde nell’inquietudine e dissoluzione interna”[96].
E altrove :” tutta l’antichità greca la pensa diversamente da noi circa l’astio e l’invidia e giudica come Esiodo, il quale designa come cattiva una sola Eris, quella cioè che trascina gli uomini gli uni contro gli altri in animose lotte distruttrici[97], e stima invece buona un’altra Eris[98], che, come gelosia, astio e invidia, sprona gli uomini all’azione, ma non all’azione della lotta distruttrice, bensì a quella del certame …Togliamo invece il certame della vita greca, subito ci affacceremo su quell’abisso preomerico che è il feroce stato selvaggio di odio e di voglia d’annientamento”[99].
Anche Vernant ha scritto parole interessanti sulle gare:”il fattore essenziale dipende dal duplice carattere dei Giochi, al tempo stesso spettacolo e festa religiosa. Spettacolo nazionale, si potrebbe dire, che riunisce e mette di fronte le varie città in una grande competizione pubblica. Ogni città è impegnata nella contesa, in cui il vincitore rappresenta appunto la sua città, più che se stesso. Si tratta anche di una festa religiosa: le gare sono cerimonie sacre. Nella religione civica e in questa religione panellenica che i Giochi contribuiscono a formare, occupando in essa un posto di rilievo, è andato sicuramente perso il ricordo delle funzioni rituali che l’agon poteva avere in origine. La prova mantiene però il suo valore di ordalia: la vittoria consacra il vincitore nel pieno senso della parola, cingendolo di un’aureola di prestigio sacrale. In questa forma di scenario rituale che è la gara, il trionfo dell’atleta-lo si vede in Pindaro-evoca e amplia l’impresa compiuta dagli eroi e dagli dèi: innalza l’uomo al livello della divinità[100]. Anche le qualità fisiche-giovinezza, forza, rapidità, destrezza, agilità, bellezza-di cui dà prova il vincitore nel corso dell’agon , e che s’incarnano agli occhi del pubblico nel suo corpo nudo, sono essenzialmente valori religiosi“[101]. Questi nella nostra società laicizzata si sono completamente perduti di vista e tale cecità impedisce di interpretare correttamente tanti fenomeni, anche estremi, del nostro tempo tormentato.
Anche le separazioni (ajpallagaiv) qualificate come non gloriose (ouj eujkleei'” , v, 236) per le donne (gunaixivn, 237) sono indicate da Antifonte sofista tra le grandi difficoltà del connubio:”calepai; me;n ejkpompaiv”[102] penoso è il divorzio. Probabilmente il sofista (attivo anche lui nella seconda metà del V secolo) trasse spunto dal poeta, a meno che abbiano avuto una fonte comune.
Quanto alla possibilità della donna di “ripudiare” (ajnhvnasqai, v. 237, è infinito aoristo di ajnaivnomai, rifiuto”) abbiamo visto il rifiuto del marito da parte dell’Elena di Saffo e della Nora di Ibsen. La prima segue “la cosa più bella”, ossia la persona che le piaceva di più, la seconda rivendica a sé il diritto di diventare un essere umano in maniera autonoma e indipendente dalle ragioni tanto degli uomini quanto dei libri. Ma una era una regina, l’altra una donna dell’estremo nord europeo capace di anticipare di quasi un secolo [103] le mogli dell’Europa meridionale.
Nella Lisistra (del 411 a. C.) Aristofane fa dire all’ateniese Cleonice:”caleph; toi gunaikw’n e[xodo” “(v. 16), è difficile per noi donne uscire . Infatti, spiega questa sposa, una di noi deve attendere il marito, l’altra deve svegliare lo schiavo, l’altra lavarlo, l’altra imboccarlo (vv. 16-20).
Di recente le femmine umane stanche di mariti insignificanti e mosci, o violenti, hanno imparato ad andarsene di loro volontà, anche contro quella del consorte. Consiglio a questo proposito la visione di uno dei migliori film del 2000: Pane e tulipani .
Al v. 238 troviamo è una di quelle parole chiave (novmou”, leggi ) “che caratterizzano una società in un’epoca data…o, aggiungiamo, un movimento letterario o un autore…Ad esempio clementia che in epoca repubblicana stava a significare genericamente clemenza, mitezza, può essere individuata come parola chiave dell’epoca imperiale ad indicare l’atteggiamento di benevolenza da parte di chi detiene il potere, e quindi i rapporti fra imperatore e sudditi “[104]. Nella tragedia, come abbiamo già visto in Sofocle, novmo” indica l’ambiguità dell’affabul’azione drammatica. E in realtà il suo campo semantico “è sufficientemente esteso per comprendere, con altri, ambedue i sensi[105]…Le parole scambiate sullo spazio scenico, anziché stabilire la comunicazione e l’accordo fra i personaggi, sottolineano viceversa l’impermeabilità degli spiriti, il blocco dei caratteri; segnano le barriere che separano i protagonisti, fanno risaltare le linee conflittuali”[106]. Non si comprendono nemmeno Antigone e Creonte che sono della stessa città e della stessa famiglia.
Nel caso di Medea il conflitto è quello, ripreso e sottolineato tanto da Grillparzer quanto da Pasolini nelle loro Medee, tra presunta barbarie e presunta civiltà.
A questo proposito si può ricordare che il drammaturgo austriaco nella sua Medea (che conclude la trilogia Il vello d’oro: L’ospite , Gli argonauti del 1821) mette in rilievo “la storia di una terribile difficoltà o impossibilità di intendersi fra civiltà diverse, un monito tragicamente attuale su come sia difficile, per uno straniero, cessare veramente di esserlo per gli altri”[107].
Il verso 238 e i due successivi[108] possono essere commentati da alcune parole della Medea di Franz Grillparzer (1791-1872). Nel primo atto la principessa di Corinto, Creusa, dice:”Non è una selvaggia. Guarda padre, piange”. E la ragazza della Colchide le risponde:” poiché sono straniera, venuta da un paese sconosciuto e ignara degli usi e dei costumi di questa terra, eccomi disprezzata, umiliata, guardata come una barbara selvatica, l’ultima, infima fra tutti, io che nella mia patria ero la prima, la regina. Farò volentieri quello che mi dite, ma ditemelo presto ciò che devo fare, anziché essere in collera con me. La tua natura è mite, onesta, lo si vede, sei sicura di te, unita e in pace con te stessa, in armonia. Questo bene, questo dono un dio me l’ha negato, ma voglio essere anch’io così e imparare da te, con gioia. Tu sai cos’è che piace a Giasone, che lo allieta; dimmelo, insegnamelo e te ne sarò sempre grata”[109]. Recentemente nella nostra televisione si sono viste donne maltrattate per il fatto che portavano il burka con orgoglio.
Al v. 240 c’ è la parola xuneunevth/, che ho tradotto con “marito” ma più precisamente significa “compagno di letto” siccome è formata da suvn (con) ed eujnhv (letto). Il letto in effetti non solo nell’Alcesti , come sostiene Kott, ma anche in questo dramma è il luogo più importante: “nella casa di Alcesti e di Admeto, come nel loro dramma, è il letto il mobile più importante”[110]. Già nel prologo della Medea il pedagogo dei bambini destinati a essere uccisi dalla madre attribuisce al letto, a quello della nuova fidanzata Glauce, la disaffezione di Giasone per i figli del primo letto, quello della maga ovviamente. Alla nutrice, che rileva come il padre si sia rivelato un infame (kakov” , v. 84) verso i figli, l’aio risponde con un’espressione di sfiducia generale che del resto vede nel letto un movente della malvagità del padrone:”Chi non lo è tra i mortali? Solo ora prendi coscienza di questo,/che ciascuno ama se stesso più del prossimo?/(alcuni magari a ragione, ma altri anche per lucro),/se questi bambini qui per un letto (eujnh'” ou{nek j) il padre non li ha cari? “(vv. 85-88). Più avanti, nella Parodo, il coro domanda a Medea:” Quale brama puoi avere tu/ dell’orribile letto (ta’” ajplavtou-koivta” e[ro” ), o demente? (vv. 151-152). Quindi aggiunge: E se il tuo sposo onora nuovi letti (kaina; levch),/non affilare l’ira perciò contro di lui/Zeus ti aiuterà a ottenere giustizia per questo:/ Non struggerti troppo rimpiangendo il tuo ex compagno di letto (eujnevtan, vv. 155-158). Anche la giustizia del sommo tra gli dèi gravita intorno al letto. Infatti Medea invoca Temide, la dea della Giustizia appunto, e Zeus “o]” o]rkwn-qnhtoi'” tamiva” nenovmistai” (vv. 169-170)che è ritenuto
dai mortali custode dei giuramenti.
Tra Odisseo e Penelope il segno certo (shvmatj ajrifradeva, Odissea , XXIII, 225) di riconoscimento non è, come con Euriclea la cicatrice, ma il letto.
Guy de Maupassant in un suo divertente racconto erotico afferma l’importanza capitale del letto:”Tengo più al mio letto che a qualsiasi altra cosa. E’ il santuario della vita. Gli affidiamo nuda la carne stanca, perché la rianimi e la riposi nel candore delle lenzuola e nel calduccio delle piume. E’ là che troviamo le ore più dolci dell’esistenza, le ore dell’amore e del sonno. Il letto è sacro. Dobbiamo rispettarlo, venerarlo; amarlo come quanto abbiamo di migliore e di più dolce sulla terra”[111].
Poco più avanti questa Medea di Euripide dirà che l’offesa fatta alla femmina umana nel letto, ossia nella sfera sessuale, la rende sanguinaria: la donna, afferma la protagonista, nelle altre cose è piena di paura, e vile nella lotta e a vedere un’arma; ma quando si trova ad essere offesa nel letto ( ej” eujnh;n hjdikhmevnh, v. 265, e cfr. v. 26) non c’è altro cuore più sanguinario ( oujk e[stin frh;n miaifonwtevra, v. 266).
Bisogna dire che le donne possono infuriarsi pure per l’offesa sessuale da loro stesse arrecata:”Bisogna stare attenti con le donne. Sorprendile una volta con le mutande abbassate. Non te la perdonano più”[112].
Il “letto” delle donne è motivo di dolore anche nell’ultimo canto del coro che ha ricordato un altro delitto di madre contro i propri figli: quello di Ino, la figlia di Cadmo fatta impazzire dagli déi (1283), in particolare dalla gelosia di Era :”w’j-gunaikw’n levco”-poluvponon, oJvsa brotoi'” e[re-xa” h[dh kakav” (vv. 1289-1292) o letto delle donne pieno di affanni, quanti mali hai procurato già ai mortali!- e[rexa” : aoristo di rJevzw.
Qui il Coro usa il termine levco” , formato sulla radice lec-/loc- che si trova sia in levcomai “sono a letto” sia in lovco”, “agguato”, “imboscata”. C’è dunque una parentela etimologica tra il letto, come luogo di incontri sessuali, e l’agguato.
L’amore può essere pure una rete.
Questa nesso è esplicitato da Cassandra quando, nell’Agamennone di Eschilo, grida:”Ahi, Ahi, che orrore! Cos’è ciò che appare?/è forse una specie di rete di Ades?/ma una rete è la compagna di letto (ajll j a[[rku” hJ xuvneuno”), la complice/dell’assassinio”(1114-1117).
L’amore come rete si trova già nella lirica corale di Ibico (VI secolo) il quale scrive (fr. 7 D.) : Eros di nuovo fissandomi con occhi struggenti sotto le palpebre azzurre mi getta con le sue grazie di ogni genere nella rete sconfinata di Cipride ( ” ej” a[peira divktua Kuvpridi bavllei”).
“La rappresentazione di Amore nell’atto di guidare Ibico in una rete è tratta dal mondo della caccia: Ibico è la preda, Afrodite tiene la rete ad Eros…Sia Afrodite che Eros sono visti in forma umana, sotto l’aspetto di cacciatori, ed Eros attrae la vittima con sguardi struggenti. Questo tocco esce forse dai limiti veri e propri della similitudine, ma è dettato da un intento preciso: Eros assomiglia al ragazzo di cui Ibico è innamorato, ed il compito che gli viene attribuito sottolinea i pericoli dell’amore”[113].
Per Ibico, si dice, “l’amore era una passione tormentosa”[114], ma le sue pene sono punzecchiature se confrontate con i tormenti della tragedia.
In questa ciò che trasforma l’amante in una nemica, e il letto in una trappola, è un’offesa subita dalla donna.
Nella tragedia di Eschilo pare che sia stato l’amore del marito per Criseide a mettere in moto il risentimento della moglie la quale dopo l’uccisione di Agamennone fa :”kei’tai gunaiko;” th’sde lumanthvrio”,-Crushivdwn meivligma tw’n uJp& jIlivw/”( Agamennone, vv. 1438-1439), giace a terra il distruttore di questa donna,/la delizia delle Criseidi sotto Il’io.
In effetti nell’Iliade , Agamennone aveva detto di preferire a Clitennestra Criseide in quanto non le era inferiore “per il corpo né per la figura né per la mente né per le opere” (I, 115).
Una variante di tale motivo della vendetta muliebre si trova nella storiografia erodotea: la regina di Lidia fa pagare con la vita al marito, il re Candaule che pure non l’aveva tradita con un’amante, l’oltraggio di averla mostrata svestita, di nascosto, al più caro tra le sue guardie del corpo, Gige,
poiché, commenta Erodoto, “presso i Lidi infatti e più o meno anche presso gli altri barbari, che anche un uomo sia visto nudo comporta una grande vergogna”. (I, 10, 3). Possiamo indicare una donna antitetica a questa regina, resa criminale dall’onta di essere stata fatta vedere nuda, nella mite e “obediente” Griselda del Decameron (X, 10) che il marchese di Saluzzo espose senza vestiti a tutta la sua brigata e ad altri:”Allora Gualtieri, presala per mano, la menò fuori, ed in presenza di tutta la sua compagnia e d’ogni altra persona la fece spogliare ignuda”, quindi la fece rivestire, la chiese in moglie, ed ella rispose:”Signor mio, sì”, quindi subì tutta una serie di angherie e torture inflittele dalla “matta bestialità” del marito senza mai ribellarglisi e finalmente conquistandolo con la sua “lunga pazienza”.
Torniamo alla Medea di Euripide.- eij de; mhv, qanei’n crewvn (v. 242) : corrisponde a quanto Cacciari scrive commentando l’Alcesti: che la donna è fatalmente legata alla famiglia e al Focolare della casa:” Dovrà lasciare il Focolare dei genitori, affinché Estia permanga intramontabile. Questo destino si rappresenta nel matrimonio: non l’unione, ‘per amore’, di un uomo e una donna, ma il passaggio della donna alla condizione di fondatrice-custode dell’oikos, in forza della propria ‘legale’ maternitàquando la donna ‘passa’ la soglia della camera nuziale, ecco che irrompe l’accidentale, il caduco: il letto che le apparteneva potrà toccare ad altre; altre potranno essere chiamate a custodire il Focolare. Ecco perché, allora, è necessario che sia Alcesti a morire. Se tale sorte toccasse ad Admeto, lei sarebbe costretta ad abbandonare l’oikos. E’ questo il significato dell’espressione variamente commentata al verso 180, dove Alcesti parla al proprio letto nuziale:”Non ti odio; tu hai perduto me sola; per non aver voluto tradire (prodou’nai) te e il mio sposo io muoio. Alcesti muore perché, morto Admeto, avrebbe dovuto abbandonarlo-tradirlo. Certo, nulla le avrebbe impedito di farlo: ella muore quando poteva non morire per lo sposo, “ma prendere tra i Tessali l’uomo che volevo e abitare una casa felice, regale (285-286). Ma, agendo così, l’oikos di Admeto si sarebbe perso ed ella avrebbe tradito Hestia”[115].-a[cqhtai: congiuntivo, in proposizione temporale eventuale, di a[cqomai, “sono gravato, sono afflitto”: a[cqo” significa peso e dolore. Regge il participio predicativo xunwvn (da suvneimi, suvn+eijmiv).-molwvn: participio congiunto, aoristo di blwvskw.
-e[pause: aoristo gnomico da pauvw che regge l’accusativo kardivan e il genitivo di allontanamento a[sh”.-trapeivvv”: participio aoristo passivo secondo, con valore intransitivo, di trevpw. Medea evidentemente non sta al gioco ma nel lamento che stiamo analizzando entrano echi di questa concezione. Una riflessione del genere si trova in Madame Bovary quando Emma desidera un figlio maschio :”Un uomo, almeno, è libero; può passare attraverso le passioni e i paesi, superare gli ostacoli, gustare le più remote felicità. Ma una donna è continuamente frustrata. Inerte e flessibile insieme, ha contro di sé le debolezze della carne come la schiavitù del codice. La sua volontà, come il velo del suo cappellino trattenuto da un cordoncino, palpita a ogni vento; c’è sempre qualche desiderio che la trascina, c’è sempre qualche convenienza che la trattiene” (p. 74).
-hJjma’”: il soggetto della dichiarativa è anticipato come oggetto della principale.-mavrnantai doriv: è il non tanto antico ma nemmeno più attuale rinfacciamento dei maschi: noi facciamo la guerra. Oggi si potrebbe rispondere che la guerra ammazza prevalentemente se non proprio esclusivamente i civili.-a[n: anafora enfatica.-sth’nai: infinito aoristo terzo di i{sthmi.-tekei’n: infinito aoristo di tivktw.
Medea risponde che preferisce la guerra al parto inaugurando un tovpo” che arriva alle soldatesse di oggi passando attraverso Ennio (239-169 a. C.) il quale fa dire alla sua Medea exul :”nam ter sub armis malim vitam cernere/quam semel parere, infatti preferirei decidere la vita sotto le armi che partorire una volta sola
Nella letteratura antica del resto non mancano le maledizioni della guerra.
Ne voglio riferire alcune per la loro estrema attualità.
Già nell’Iliade Zeus dice ad Ares:”e[cqisto” dev moiv ejssi qew’n oiJ; O[lumpon e[cousin (V, 890), tu per me sei il più odioso tra gli dei che abitano l’Olimpo.
Nei Sette a Tebe di Eschilo il dio della guerra è un domatore di popoli che infuriando soffia con violenza e contamina la pietà “mainovmeno” d& ejpipnei’ laodavma”-miaivnwn eujsevbeian”(vv. 343-344).
Nell’Agamennone (del 458) Ares viene definito “oJ crusamoibo;” d& [Arh” swmavtwn”(v.437), il cambiavalute dei corpi nel senso che la guerra distrugge le vite e arricchisce gli speculatori.
In maniera analoga il tenente Mahler, l’amante della contessa adultera, del film Senso di Visconti pone questa domanda retorica:”Cos’è la guerra se non un comodo metodo per obbligare gli uomini a pensare e ad agire nel modo più conveniente a chi li comanda?”.
Secondo Gaetano De Sanctis, Eschilo con questa tragedia ha voluto mettere in guardia gli Ateniesi”contro le guerre ingiuste, pericolose e lontane, onde tornano, anziché i cittadini partiti per combattere, le urne recanti le loro ceneri. La lista dei caduti della tribù Eretteide mostra quale eco dovesse avere nei cuori tale monito durante quella campagna d’Egitto (anni 459-454) in cui fu impegnato il fiore delle forze ateniesi”[117].
nell’Edipo re Ares viene deprecato dal religiosissimo autore come “il dio disonorato tra gli dei” ( ajpovtimon ejn qeoi'” qeovn , v.215). Il dio è disonorato poiché la guerra del Peloponneso dopo la morte di Pericle era condotta dal becero e sanguinario Cleone senza rispetto dell’etica eroica e senza riguardo per l’umanità: cfr.Tucidide V,111, dove gli Ateniesi intimano ai Meli di non volgersi a quel sentimento di onore che procura grandi rovine agli uomini.
Empedocle (fiorito intorno alla metà del V secolo) nel Poema lustrale (fr. 119, 1) narra che gli uomini della primitiva età felice non avevano Ares come dio né il Tumulto della battaglia:”oujdev ti” hj’n keivnoisin [Are” qeo;” oujde; Kudoimov””.
Il protagonista degli Acarnesi ( del 425) di Aristofane, fieramente avverso alla guerra, promette: “io non accoglierò mai in casa Polemo“(v. 977), la personificazione del conflitto, visto come ” un uomo ubriaco ( pavroino” aJnhvr, v. 981) il quale “ha operato tutti i mali e sconvolgeva, e rovinava“(983) e, pur invitato a bere nella coppa dell’amicizia: “bruciava ancora di più con il fuoco i pali delle viti/e rovesciava a forza il nostro vino fuori dalle vigne“(986-987).
Il pacifista Diceopoli si fa portavoce dei contadini, esasperati poiché la guerra del Peloponneso distrugge tutti gli anni i raccolti.
La festa che segue alla pace infatti odora di frutta, conviti, di grembi di donne che corrono verso la campagna ( kovlpou gunaikw’n diatrecousw’n eij” ajgrovn, Pace del 421, v. 536) e di tante altre cose buone.
Anche Euripide, che pure aizza spesso l’odio ateniese contro Spartani e Spartane, attribuisce a Poseidone una condanna delle devastazioni belliche nel prologo delle Troiane :”mw’ro” de; qnhtw’n oJvsti” ejkporqei’ povlei”-naou;” te tuvmbou” q JJjj iJera; tw’n kekmhkovtwn,-ejrhmivvva/ dou;” aujto;” w[leq J u{steron”(v. 95), è stolto tra i mortali chi distrugge le città, gettando nella desolazione templi e tombe, sacri asili dei morti; più tardi anche lui morirà.
Nell’Elena (vv. 37-40) e nell’Oreste (vv. 1640-1642) il tragediografo afferma che la guerra è un mezzo voluto dagli dèi per alleggerire il mondo oberato dalla massa troppo numerosa dei mortali.
Virgilio nella prima Georgica (v.511) depreca “Mars impius ” che al tempo della guerra civile infuria dovunque, come nell’età del ferro. Orazio chiama il dio Marte torvus in Carmina I, 28, 17 e cruentus in II,14, 13. Splendida condanna dell’imperialismo dei Romani e delle loro guerre infine Tacito fa pronunciare da Calgaco, il capo dei Caledoni ribelli:”Auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant ” (Agricola , 30), rubare, massacrare, rapire con nome falso chiamano impero e dove fanno il deserto lo chiamano pace. Tutti biasimi e moniti che dobbiamo continuare a rivolgere ai promotori di una guerra della quale non vogliamo essere complici
Ora veniamo anche alla Medea di Seneca ( 4 a. C.-65 d. C.).
Medea, come Fedra , incarna il furor che prevale sulla bona mens in seguito al ripudio del lovgo” .
E’ questa una tragedia grondante pessimismo nei confronti della storia e della società. Tale visione comporta il rifugiarsi e il chiudersi nel proprio spazio intimo .
Eliot anzi trova delle analogie tra i personaggi di Seneca e quelli di Shakespeare precisamente in questo loro arroccarsi nella proprio individualità:”Nell’Inghilterra elisabettiana si hanno condizioni in apparenza affatto diverse da quelle di Roma imperiale. Ma era un’epoca di dissoluzione e di caos; e in tal epoca, qualsiasi attitudine emotiva che sembri dare all’uomo alcunché di stabile, anche se è soltanto l’attitudine di “io sono solo me stesso”, è avidamente assunta. Ho appena bisogno di segnalare…quanto prontamente, in un’epoca come l’elisabettiana, l’attitudine senechiana dell’orgoglio, l’attitudine montaigniana dello scetticismo, e l’attitudine machiavellica del cinismo giunsero a una specie di fusione nell’individualismo elisabettiano. Questo individualismo, questo vizio d’orgoglio, fu, necessariamente, sfruttato molto a causa delle sue possibilità drammatiche…Antonio dice “Sono ancora Antonio [118]” e la Duchessa “Sono ancora Duchessa di Amalfi “[119]; avrebbe sia l’uno che l’altro detto questo se Medea non avesse detto Medea superest ?”[120].
La risposta di Medea è per la nutrice che le aveva detto:”Abiere Colchi, coniugis nulla est fides;/nihlque superest opibus e tantis tibi ” (vv. 164-165), quelli della Colchide sono lontani, la lealtà del marito non esiste, di tanta potenza non ti rimane niente.
E’ a questo punto che la nipote del sole rivendica la sua identità grandiosa, addirittura cosmica:”Medea superest; hic mare et terras vides,/ferrumque et ignes et deos et fulmina ” (vv. 166-167), Medea rimane: qui vedi il mare e le terre, e il ferro e i fuochi e gli Dei e i fulmini.
La stessa difesa dell’identità nella Medea della Wolf:”Mi dissi, io sono Medea, la maga, se è questo che volete. La selvaggia, la straniera. Non mi vedrete umiliata”[121]. Questa del resto non è un’assassina. C’è poi l’assassina (Lady Macbeth) o l’assassino (Raskolnikov di Delitto e castigo) che si trova a disagio nella nuova identità di criminale.
“Così l’eroe senecano si salva, può salvarsi non nella storia (come gli eroi enniani) , non per la storia (Enea), non fuori dalla storia (come i martiri cristiani) ma nonostante e spesso contro la storia“[122]. Come quelli delle tragedie di Manzoni viene voglia di aggiungere. Oppure come la Medea di Christa Wolf:” Non sono giovane, ma pur sempre selvaggia, lo dicono i corinzi, per loro una donna è selvaggia se fa di testa sua. Le donne dei corinzi mi sembrano animali addomesticati, resi con cura mansueti, e mi fissano come un’apparizione estranea”[123]. Questa Medea non ha ucciso il fratello né i figli ma contro di lei viene ordita una montatura perché ha ficcato il viso a fondo negli arcana del Palazzo, come succede anche oggi a tante persone soppresse da un finto suicidio: “Medea sarebbe stata accusata di aver ucciso suo fratello Apsirto in Colchide. Ciò avrebbe dato ad Acamante il pretesto per procedere contro di lei, se voleva, dato che non poteva utilizzare il suo vero crimine, l’essersi intromessa in un intimo segreto di Corinto. Noi due del resto, Presbo e io, non ci nascondemmo la nostra gioia maligna per il fatto che anche questa Corinto meravigliosa, ricca, così sicura di sé ed arrogante ha i suoi passaggi sotterranei con segreti profondamente celati”[124]. Sui segreti del potere e del palazzo (imperii arcanum e arcana domus) torneremo studiando Tacito.
La Medea della Wolf non ha ammazzato suo fratello né i propri bambini. Apsirto viene fatto uccidere dal padre Eeta per conservare il potere rispettando una tradizione barbarica. Medea, in uno dei monologhi di cui è composto il romanzo, racconta:” Quando corsi per il campo su cui le donne folli avevano sparpagliato le membra fatte a pezzi, quando corsi singhiozzando per quel campo nell’oscurità che calava e ti raccolsi, povero fratello scorticato, pezzo dopo pezzo, osso dopo osso, allora smisi di credere. Come potremmo mai ritornare su questa terra in nuova forma. Perché le membra di un uomo morto sparse sul campo dovrebbero rendere fertile questo campo” (p. 99).
Medea si è costruita un’identità cattiva per controbattere un mondo cattivo. Già l’invocazione iniziale, “preghiera nera” la definisce Biondi[125] è rivolta “voce non fausta ” (v. 12), con parole di maledizione, alle tenebre e ai loro prìncipi:”noctis aeternae chaos, aversa superis regna, manesque impios, dominumque regni tristis et dominam fide meliore raptam, voce non fausta precor ” (vv. 9-12), caos della notte eterna, regni opposti al cielo, ombre empie, signore del regno cupo e signora rapita con miglior fede[126], con parole non propizie vi prego.
Altrettanto fa Lady Macbeth quando invoca gli spiriti che apportano pensieri di morte:”unsex me here“, snaturatemi il sesso ora e riempitemi dalla testa ai piedi della crudeltà più orrenda (of direst cruelty). Il sangue di cui gronda la tragedia, nel suo corpo deve essere addensarsi e chiudere ogni via di accesso al rimorso (I, 5).
Quindi chiama una densa notte che giunga avvolta nel più tetro fumo d’inferno perché il suo pugnale non veda la ferita che fa .
“Il difetto di natura di Lady Macbeth è segnato dalla sua paura dell’oscurità; “essa ha sempre vicino un lume”[127].
Poco più avanti (I, 7) questa donna terribile immagina l’uccisione di un suo bambino piccolo:”Io ho dato latte: e so quanta tenerezza si prova nell’amare il bambino che lo succhia; ebbene io avrei strappato il capezzolo dalle sue gengive senza denti mentre egli mi avesse guardata in faccia sorridendo e gli avrei fatto schizzare via il cervello se lo avessi giurato come tu hai giurato questo. “La sua voce dovrebbe indubbiamente sollevarsi fino a raggiungere in “schizzar via il cervello”, un urlo quasi isterico”[128].
Si può pensare alla mamma di Cogne? Secondo me no: non è stata lei.
“I versi più terribili della tragedia sono quelli del suo grido raccapricciante “Ma chi avrebbe mai pensato che quel vecchio avesse dentro tanto sangue?”[129] (V, 1).
La propria natura malvagia e infernale Medea l’ha portata a compimento dopo le nozze maledette e la maternità. Da ragazza, ella ricorda, tradì il padre, uccise e fece a pezzi il fratello Apsirto, per amore di Giasone, ma ora che è sposa e madre andrà oltre:”levia memoravi nimis:/ haec virgo feci; gravior exurgat dolor:/ maiora iam me scelera post partus decent ” (vv. 48-50), ho ricordato misfatti troppo leggeri: questi li ho compiuti da ragazza; sorga un dolore più opprimente: maggiori delitti mi si addicono dopo il parto. I delitti passati continuano a tornarle in mente per incoraggiarla a quello estremo di uccidere i figli. La Medea furiosa di Delacroix (1838) ribalta l’immagine della maternità data dai seni nudi e dai bambini avvinghiati a lei con il pugnale che stringe nella mano sinistra.
Anche Lady Macbeth è una donna che, per altre ragioni, non può permettersi la pietà : ella confuta il marito che dopo l’assassinio del re si impietosisce dicendo :” This is a sorry sight “, questa è una vista pietosa; e lei:”A foolish thought to say a sorry sight ” (II, 2), è uno stolto pensiero dire vista pietosa! Anche qui il problema di fondo è quello dell’identità che la scozzese trova nel soddisfacimento di un’ambizione assoluta la quale annienta ogni altro valore. Eppure né Medea né Lady Macbeth sono dei mostri poiché, a differenza, per esempio, di Jago e Gonerilla, provano la sofferenza morale
L’amore si è capovolto in odio per quanto male si sono realizzati gli auspicati imenei che, stando alle Argonautiche di Apollonio Rodio (295 ca-215 a. C.), faceva la ragazza quando immaginava che Giasone fosse andato nella Colchide, ad affrontare le terribili prove imposte da Eeta, non per impossessarsi del vello d’oro bensì per portarla nella sua casa come legittima sposa (“kouridivhn paravkoitin “, III, 623).
Ma l’investimento erotico dei due è del tutto sproporzionato anche in questo poema e il sogno matrimoniale della principessa della Colchide è patetico quasi quanto quello di Amalia, la disgraziata sorella di Emilio Brentani , “nata grigia”[130] eppure innamorata del donnaiolo Balli. Ella delirando “si sognava a nozze”( Senilità, p. 218).
“Il secondo monologo rappresenta la reazione emotiva al sogno, uno dei momenti di maggiore soggettività del racconto apolloniano (III, 616-632); si tratta di un sogno ‘fotografico’, in cui il desiderio compare nella sua trasparenza, praticamente senza l’intervento della condensazione o dello spostamento. Medea sogna che Giasone sia venuto dalla Colchide non per il vello, ma per portarla in Grecia come sposa, e che sia lei stessa a compiere la prova terribile escogitata dal padre, provocando una lite con i genitori che la costringano ad una scelta: e la sua scelta ricade sullo straniero, su Giasone. Nella poesia antica il sogno aveva sempre un carattere premonitore e allegorico: qui invece per la prima volta si configura come chiara realizzazione del desiderio. In una nota dell’Interpretazione dei sogni Sigmund Freud cita, fra i predecessori della sua teoria del sogno come appagamento di desiderio, il medico Erofilo, vissuto al tempo di Tolomeo I, su cui abbiamo infatti testimonianze in tal senso. Apollonio ha dunque recepito una novità della ricerca scientifica a lui contemporanea e l’ha trasposta nella sua finzione poetica”[131].
Freud considera i sogni infantili espressione diretta del desiderio:”E’ facile vedere come tutti questi sogni di bambini concordino in un particolare; realizzino, cioè, i desideri che sono nati durante il giorno e che non sono stati soddisfatti; sono quindi chiaramente, e senza mezze misure, desideri realizzati”[132]. Tale è anche il sogno di Nausicaa all’inizio del VI canto dell’Odissea .
Più avanti la Medea di Seneca ricorda ancora il fratellino della fanciulla esecranda, se stessa, (“nefandae virginis parvus comes “, v. 131) sconciato, il suo corpo disseminato per il mare (“sparsumque ponto corpus “, v. 133) e le membra del vecchio Pelia bollite nella caldaia ( “et Peliae senis/decocta aeno membra “[133], vv. 133-134), sangue sparso insomma, ma allora senza l’ira che infuria ora, scatenata dall’amore infelice:”quam saepe fudi sanguinem, et nullum scelus/irata feci: saevit infelix amor ” (vv. 135-136), quanto spesso ho versato sangue, e nessun crimine ho commesso infuriata: ora è feroce l’amore infelice. Compiendo il delitto più atroce questa donna pensa di diventare quello che è:”Medea ” la chiama la nutrice ed ella risponde “fiam ” (v. 171), lo diventerò.
Medea è una donna insanguinata, e anche lei potrebbe dire le parole di Macbeth [134]: io sono andato tanto oltre nel sangue che, se non volessi andare avanti nel guado, tornare indietro per me sarebbe rischioso quanto procedere (III, 5).
Il suo è un genio che matura e si potenzia nel male.
La nutrice la definisce “scelerum artifex” (734) un genio del male e la descrive mentre prepara i veleni richiesti al cielo (caelo petam venena, v. 692). “Mortifera carpit gramina ac serpentium/saniem expr?mit miscetque et obscenas aves/maestique cor bubonis et raucae strigis/exsecta[135] vivae visceraAddit venenis verba non illis minus/ metuenda. Sonuit ecce vesano gradu/canitque. Mundus vocibus primis tremit ” (vv. 731-734 e 737-739), sminuzza le erbe micidiali e spreme la bava dei serpenti e mescola anche uccelli di cattivo augurio e il cuore di un lugubre gufo e le viscere strappate da stridula strigeAi veleni aggiunge parole non meno tremendi di quelle. Eccola che ha fatto risuonare il suo passo furioso e canta. Il mondo trema solo a udirne la voce.
“In verità è difficile leggere il resoconto dei preparativi di Medea (670-739) senza riandare con la mente agli incantesimi del Macbeth “[136].
Dopo avere fatto crollare nelle fiamme il palazzo di Creonte, re di Corinto, e poco prima di uccidere entrambi i propri figli, la madre furente [137] grida:”Medea nunc sum; crevit ingenium malis/ Iuvat, iuvat rapuisse fraternum caput;/artus iuvat secuisse et arcano patrem/spoliasse sacro, iuvat in exitium senis/ armasse natas. Quaere materiam, dolor:/ad omne facinus non rudem dextram afferes ” (vv. 910-915), ora sono Medea, il mio genio è maturato nel male. Mi piace, mi piace avere strappato la testa al fratello; mi piace averne segate le membra, e avere spogliato mio padre del suo misterioso idolo[138], mi piace avere armato le figlie alla distruzione del padre. Cercati un bersaglio, dolore: ad ogni delitto spingerai una destra non inesperta.
Medea mostra con orgoglio forsennato, quale simbolo della sua identità, quella mano porca di sangue che nella tragedia di solito, viceversa, è oggetto di tentativi, sempre vani di purificazione. Ricordiamo il Creonte di Christa Wolf , il re il quale, come l’Agamennone dell’ Ifigenia in Aulide di Euripide, ha voluto o permesso l’assassinio della figlia adolescente per conservare il potere:”Allora gli dico quello che so: che là, nella caverna, ci sono le ossa di una ragazza, una bambina, quasi, della tua età, fratello. E che sono le ossa della figlia del re, la prima figlia del re Creonte e della regina Merope
La mano dell’assassino è ricorrente nei drammi dei cupi delitti: gli stessi autori o gli ispiratori dei misfatti rimangono impressionati dalla mano che ha colpito, oppure ha solo istigato, comunque è rimasta sporca di sangue.
Nelle Coefore si legge:” Tutti i canali convogliati in un’unica via, bagnando la strage che imbratta la mano, correrebbero inutilmente a purificarla”(vv.72-74).
Nella Repubblica di Platone il resuscitato Er ricorda che pene particolarmente gravi devono subire quanti hanno compiuto i delitti con le proprie mani :”kai; aujtovceiro” fovnou meivzou” e[ti tou;” misqou;” dihgei’to”(615c), e raccontava che ancora più grandi erano i castighi dell’assassinio compiuto di propria mano.
Nel Macbeth il protagonista, dopo che ha assassinato il re, fa:” Will all great Neptune’s Ocean wash this blood clean from my hand?, tutto l’oceano del grande Nettuno potrà lavar via questo sangue dalla mia mano? No, piuttosto questa mia mano tingerà del colore della carne le innumeri acque del mare facendo del verde un unico rosso (II, 2).
Vediamone il modello senecano: Ippolito nella Fedra sentendosi contaminato dalla matrigna, dice:” quis eluet me Tanais aut quae barbaris/Maeotis undis pontico incumbens mari?/Non ipse toto magnus Oceano pater tantum expiarit sceleris, o silvae, o ferae! ” (vv.715-718, quale Tanai mi laverà o quale Meotide che con le barbare onde preme sul mare pontico? Nemmeno il grande padre mio con tutto l’Oceano potrebbe espiare un delitto così enorme. O foreste, o fiere!
Lady Macbeth in un primo momento afferma che poca acqua basterà a pulire le mani lordate dal misfatto:”A little water clears us of this deed ” (II, 2) leggiamo nella tragedia di Shakespeare, una battuta che nel libretto di Piave del melodramma musicato da Verdi diventa:” Ve’ le mani ho lorde anch’io; poco spruzzo e monde son” (I atto).
Più avanti la stessa donna che, aizzando il marito al tradimento e al delitto era sembrata tanto salda, sospira:”All the perfumes of Arabia will not sweeten this little hand “, tutti i balsami d’Arabia non basteranno a profumare questa piccola mano (V,1).
“E’ interamente un caso che i paralleli fra Seneca e Shakespeare sembrano essere più frequenti nel Macbeth che in qualsiasi altra delle sue opere certamente genuine, ad eccezione forse del Riccardo III, tragedia indubbiamente influenzata da Seneca o dai drammi senechiani inglesi?”[139]. Il Macbeth ha di classico anche le dimensioni; con questa tragedia Shakespeare “volle fare l’antitesi del suo King Lear : al più grande e vasto poema drammatico, egli volle far seguire una tragedia breve, rapida, dal principio alla fine, con un’azione concisa e concentrata in due personaggi soli, che, attraverso ad una logica stringente e quasi violenta, festinant ad eventum[140], classicamente, con un insolito, e perciò sorprendente, rigore di tempo e di luogo. L’azione si compie, ad intervalli, nello spazio di nove giorni: e tranne alla fine del IV atto, che è in Inghilterra, per tutto il resto della tragedia si svolge nella Scozia”[141].
Medea non teme pene e non vuole lavare né profumare le proprie mani sanguinarie poiché è mossa dal massimo dolore che può scatenare l’ira più grande in una donna, quella provocata dall’oltraggio subito nella sfera sessuale, come abbiamo visto nella tragedia di Euripide. Così pure la Medea di Seneca, umiliata dall’uomo che ama, prova una furia che supera la potenza delle forze naturali :”Non rapidus amnis, non procellosum mare/Pontusve Coro saevus aut vis ignium/adiuta flatu possit inhibere impetum/irasque nostras: sternam et evertam omnia. Timuit Creontem ac bella Thessalici ducis?/Amor timere neminem verus potest “(vv. 411-416), non fiume travolgente, non mare in tempesta o il Ponto inferocito dal maestrale o la forza di fuochi potenziata dal vento potrebbe arrestare l’impeto dell’ira mia: abbatterò e rovescerò tutto. Ha temuto Creonte e la guerra del re Tessalo? Il vero amore non teme nessuno.
Medea afferma che l’incoercibilità dell’istinto della donna nel campo amoroso è ineluttabile. Vediamone altri casi nella letteratura.
La vedova Ghismunda che pure è ” giovane e gagliarda e savia” nel Decameron (IV, 1) di Boccaccio sostiene la naturalezza della passione carnale difendendo il proprio sentimento amoroso per il giovane valletto Guiscardo “uom di nazione assai umile ma per vertù e per costumi nobile”, davanti al padre Tancredi, principe di Salerno che non la capisce:” Esserti ti dové, Tancredi, manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro…Sono adunque, sì come da te generata, di carne, e sì poco vivuta, che ancora son giovane, e per l’una cosa e per l’altra piena di concupiscibile disidero, al quale maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere stata maritata, conosciuto qual piacere sia a così fatto disidero dar compimento. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello che elle mi tiravano, sì come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi”.
Il padre però uccide l’amante della figliola e questa si uccide. “Boccaccio, in nome del suo laico naturalismo, esclude ogni idea di peccato in relazione all’amore carnale, e propone l’eroina come exemplum sublime di dedizione ai diritti della passione, fino al sacrificio totale, nonché di magnanimità cortese nella fedeltà all’amore”[142].
Molto più comprensivo di Tancredi nei confronti dell’istinto femminile è Leopold Bloom nell’Ulisse di Joyce :”Tinnulo calessino[143]. Lei voleva andare. Ecco perché. Donna. Tanto vale fermare il mare”[144]. E’ la teoria per la quale la donna dà maggiore importanza dell’uomo all’accoppiamento e all’amore, una teoria invero che ora, tra le cosiddette donne in carriera, sta perdendo credito, ma solo fino a un certo punto.
Sostenitore estremo di tale pensiero è O. Weininger:”La donna si consuma tutta nella vita sessuale, nella sfera dell’accoppiamento e della procreazione, nella relazione, cioè, di moglie e di madre…Di conseguenza sono anche soltanto gli uomini con qualità femminili quelli che corrono continuamente dietro a qualche sottana e trovano il loro maggior interesse negli amori e nei rapporti sessuali…Per dirla trivialmente: l’uomo ha il pene, mentre la vagina ha la donna”[145].
La donna pertanto se viene umiliata in quella sfera riceve un affronto totale, una deminutio della sua personalità cui si ribella con tutta la forza dell’istinto di sopravvivenza.
I ragionamenti spesso traggono origine da stati emotivi.
Torniamo alla Medea di Euripide la quale individua nel suo animo un conflitto tra la passione furente e i ragionamenti. E comprende che l’emotività, sebbene sia causa dei massimi mali per gli uomini è più forte dei suoi propositi:” qumo;” de; kreivsswn tw’n ejmw’n bouleumavtwn,-oJvsper megivstwn ai[tio” kakw’n brotoi'””( vv. 1079-1080). Questa affermazione contraddice il razionalismo che Nietzsche attribuisce a Euripide e ai suoi personaggi:”Euripide si accinse a mostrare al mondo, come fece anche Platone, l’opposto del poeta “irragionevole”; il suo principio estetico “tutto deve essere cosciente per essere bello” è, come ho detto, la proposizione parallela al precetto socratico “tutto deve essere cosciente per essere buono”. Per conseguenza Euripide può essere da noi considerato come il poeta del socratismo estetico”[146].
Snell dunque ritrova in Nietzsche:” i tre capi d’accusa: quello di realismo, di razionalismo, di corruzione. Non è difficile riconoscere qui il pensiero di Schlegel, ma dietro di lui c’è anche Aristofane. Particolarmente accentuata è in Nietzsche l’idea di Aristofane che colui che siede con Socrate è causa della rovina della tragedia. Soltanto in un punto caratteristico Nietzsche si differenzia da A. Schlegel; Socrate non è per lui l’immoralista, ma piuttosto il moralista, e appunto come moralista e spirito teoretico distrugge quel che c’era di vivo e sacro nel mondo antico. La morale diventa qui un elemento dissolvitore”[147].
In realtà Medea è prevalentemente sentimentale.
Tale anche la Medea di Christa Wolf:”quella donnaera, come potrei dire, troppo femmina, cosa che ne coloriva anche il pensiero. Lei pensava, ma perché ne parlo al passato, lei ritiene che le idee si siano sviluppate dai sensi e che non dovrebbero perdere quel legame. Antiquata naturalmente, superata”[148]. E’ ancora Acamante che parla. Anche Foscolo scrive in un periodo di stanchezza postfilosofica e antepone la parte emotiva a quella razionale:”Cos’è l’uomo se tu lo abbandoni alla sola ragione fredda, calcolatrice? scellerato, e scellerato bassamente”[149]. Il cuore è la parte più nobile e viva della persona di Iacopo Ortis:”se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo caccerò come un servo infedele”[150]. E’ Il cuore che, non senza un poco di utilitarismo, rende Emma Bovary insaziabilmente vorace di emozioni:”Amava il mare solo quando era in tempesta e il verde solo quando ricopriva le rovine. Doveva poter ricavare dalle cose una specie di profitto personale; respingeva come inutile quanto non contribuiva immediatamente a saziare la voracità del suo cuore, aveva un temperamento più sentimentale che artistico, voleva emozioni e non paesaggi”[151].
Già al v. 485 della tragedia di Euripide rievocando i delitti compiuti per amore, la nipote del sole si era definita:”provqumo” ma’llon hj; sofwtevra”, più passionale che saggia.
Sono parole utilizzabili per confutare il presunto razionalismo di Euripide, quello che Nietzsche chiama “socratismo estetico, la cui legge suprema suona a un dipresso:”Tutto deve essere razionale per essere bello”, come proposizione parallela al principio socratico :”solo chi sa è virtuoso”[152].
Ma che cosa è il Il qumov” ?
In Omero è “ciò che provoca le emozioni…In molti punti quando si parla della morte è detto che il qumov” abbandona l’uomo…Sappiamo che quest’organo determina anche i movimenti del corpo, ed è quindi naturale dire che esso, nel momento della morte, abbandona le ossa e le membra coi loro muscoli…La gioia ha generalmente sede nel qumov”…Inoltre è generalmente il qumov” che fa agire l’uomo…Se qumov” è in genere la sede della gioia, del piacere, dell’amore, della compassione, dell’ira e così via, dunque di tutti i moti dell’animo, tuttavia può trovar sede talvolta nel qumov” anche la conoscenza…Quando si dice che qualcuno sente qualcosa, kata; qumovn, qumov” è in questo caso un organo e noi possiamo tradurre la parola con “anima”, ma dobbiamo tenere presente che si tratta dell’anima soggetta alle “emozioni”. Però anche qumov” verrà in seguito a determinare una funzione (e allora potremo tradurre la parola con “volontà” o “carattere”) e anche la funzione singola: dunque anche quest’espressione ha un significato più esteso di quanto non abbiano le nostre parole “anima” e “spirito”. Nel modo più chiaro appare ciò nell’Odissea (IX, 302) dove Ulisse dice: eJvtero” dev me qumo;” e[ruken:” un altro qumov” mi trattenne”, e qui dunque qumov” si riferisce a un particolare moto dell’animo”[153].
Con qumov” sono composte le parole che designano le due parti meno alte dell’anima nella Repubblica di Platone: qumoeidhv” è l’elemento irascibile che deve essere alleato con il logistikovn, la componente razionale, nel presiedere all’ ejpiqumhtikovn, l’elemento appetitivo, la parte maggiore e la più insaziabile di ricchezze (441e).
Un’altra più precisa smentita della presunta concordanza e complicità tra Euripide e Socrate la fornisce Fedra quando nell’Ippolito dice:” “bisogna considerare questo:/il bene lo conosciamo e riconosciamo,/ma non lo costruiamo nella fatica (oujk ejkponou’men: il bene costa povno” , fatica) , alcuni per infingardaggine (ajrgiva” u{po),/ alcuni anteponendogli qualche altro piacere./ E sono molti i piaceri della vita:/lunghe conversazioni, l’ozio, diletto cattivo,(scolhv, terpno;n kakovn) l’irrisolutezza…”(vv.379-385).
“Euripide non fu precisamente il razionalistico “poeta dell’illuminismo greco”. Fu il poeta che meglio di ogni altro seppe ascoltare i moti più segreti del cuore umano e avvertì in tutta la loro gravità i conflitti che ora ne scaturivano. Il desiderio di vendetta di Medea emerge dalle insondabili profondità della sua anima, e appena arriva alla soglia della coscienza ha inizio nell’intimo del personaggio una dura, inesorabile lotta, in cui la ragione e l’amore materno soccombono alla passionalità del qumov” . La vita ha insegnato ad Euripide che noi abbiamo in genere chiara coscienza del bene, ma non lo attuiamo perché gli impulsi irrazionali sono più forti”[154].
Topico diverrà il tema della debolezza della ragione di fronte alla parte emotiva preponderante.
V. Di Benedetto mette in evidenza che la lucidità mentale dei personaggi euripidèi dà loro consapevolezza della potenza delle passioni e della catastrofe necessariamente provocata da loro:” Il razionalismo euripideo presuppone, con un forte senso della realtà, il condizionamento che le passioni e in genere una situazione non modificabile dalla volontà impongono all’uomo. Fedra tenta invano di sradicare dal suo petto la passione per il figliastro, e alla fine la soluzione più razionale-l’unica possibile per lei-consiste nel prendere atto di questa situazione e porre fine alla sua esistenza. Con un procedimento non identico, ma analogo, Medea riesce con uno sforzo estremo di riflessione, a rendersi conto di essere dominata da una forza, che è capace di imporsi non solo a lei, ma in genere a tutti gli altri uomini. Il suo razionalismo consiste nel fatto che il suo intelletto riesce ad inquadrare la sua situazione personale in un contesto più ampio e a rendersi conto, con piena lucidità, dell’infelice destino a cui ella va inevitabilmente incontro, data la situazione. Una volta che il thymòs si pone come una forza per così dire extrapersonale contro cui l’impulso dell’affetto materno è risultato vano, il
“capire” si esprime nel rendersi conto della necessità a cui la situazione oggettivamente porta. Come Fedra sa che dovrà morire, così Medea sa che dovrà precipitare nella tremenda sciagura di essere l’assassina dei figli”[155].
Si potrebbe commentare questa affermazione con l’esclamazione lamentosa di Tiresia nell’Edipo re : Ahi,ahi, sapere come è terribile quando non giova a chi sa” (vv. 316-317), fa il profeta quando il re di Tebe lo incalza perché gli dia coscienza della sua orribile identità.
La consapevolezza infatti non basta a evitare la catastrofe.
Anche la Medea di Ovidio alla fine della sua Epistula Iasoni dichiara:”Quo feret ira sequar. Facti fortasse pigebit ” (Heroides , XII, 211), andrò dove mi porterà la collera. Forse mi pentirò del misfatto.
Teognide stabiliva una graduatoria tra qumov” e novo” affermando che quello la cui mente non è più forte della passione (w’/tini mh; qumou’ krevsswn novo”) , si trova sempre nelle disgrazie e in gravi difficoltà (Silloge, vv. 631-632).
Il fatto è che queste due componenti della persona sono intrecciate: il Giulio Cesare di Plutarco (50-120 d. C.) nel momento di gettare il dado, ossia di infrangere le leggi lanciandosi oltre il Rubicone (gennaio del 49 a. C.), sintetizza emotività e calcolo: agisce “Tevlo” meta; qumou’ tino” wJvsper ajfei;” eJauto;n ejk tou’ logismou’ pro;” to; mevllon” (Vita di Cesare , 32), in definitiva con impulso, come se si lanciasse verso il futuro partendo dal ragionamento.
Se questo Cesare assomiglia alle donne di Euripide non aveva torto Pavese nel cogliere una forte somiglianza tra le femmine umane e gli uomini d’azione:”Le donne hanno una profonda fondamentale indifferenza per la poesia. Somigliano in questo agli uomini d’azione -le donne sono tutti uomini d’azione-“[156].
Concludo questo argomento affermando che Euripide ha anticipato di molti secoli la scoperta che i ragionamenti spesso sono sentimenti con la maschera
E’ un’idea espressa chiaramente da Svevo :”Nelle lunghe ore che egli passò là, inerte, ragionò anche una volta sui motivi che l’avevano indotto a lasciare Annetta, ma come sempre il suo ragionamento non era altro che il suo sentimento travestito”[157].
Similmente ne L’uomo senza qualità di Musil:”Tutto ciò che si pensa è simpatia o antipatia, si disse Ulrich”[158]. Luogo simile si trova anche ne La noia di Moravia:”Ma tutte le nostre riflessioni, anche le più razionali, sono originate da un dato oscuro del sentimento”[159].
La Necessità nella Medea e nell’Alcesti.
A proposito della forza dello qumov” che è più forte (kreivsswn) rispetto alle altre parti dell’anima nella madre che uccide i figli, D. Del Corno vede nella Medea piuttosto il prevalere della necessità .
Il potere assoluto dell’ jjjjAnavgkh era già stata apertamente affermata da Euripide nell’Alcesti . Nel Terzo Stasimo della tragedia più antica ( è del 438) tra quelle pervenuteci il Coro eleva un inno alla Necessità vista come la divinità massima, quella che vincola e subordina tutti, compresi gli dèi:
“Io attraverso le muse/mi lanciai nelle altezze, e/ho toccato moltissimi ragionamenti,/ma non ho trovato niente più forte/della Necessità né alcun rimedio (krei’sson oujde;n jAnavgka”-hu|ron oujdev ti favrmakon)/nelle tavolette tracie che scrisse la voce di/Orfeo, né tra quanti rimedi/diede agli Asclepiadi Febo/dopo averli ricavati dalle erbe come antidoti/per i mortali afflitti dalle malattie”(vv. 962-972).
La Necessità incombente sull’Alcesti secondo M. Cacciari è quella che minaccia l’esilio e davanti alla vicina attuazione di questo, coincidente con la morte di Admeto, costringe a morire in vece del marito la vestale della casa, la fedelissima di Hestia, la dea che nel Fedro platonico, “di contro al molteplice dei pianeti, alle divinità che seguono Zeus” da sola “rimane fissa al suo luogo, alla sua essenza”[160].
Le parole di Platone sono:”mevnei ga;r jEstiva ejn qew’n oi[kw/, movnh” (247a), rimane sola Estia nella casa degli dèi.
Qualora fosse Admeto a morire Alcesti “sarebbe costretta ad abbandonare l’oikos”. Quindi “è necessario che sia Alcesti a morire”.
Insomma le fedeli di Hestia, conclude Cacciari, “vivono nell’angoscia dell’esilio-massima angoscia per chi sia ‘responsabile’ dell’immobile centro. La violenza dell’esilio, o almeno la violenza della sua costante minaccia, abita, dunque, la dimensione della casa, il luogo dell’oikos. Nessuna dimora ne è al riparo-e nessuna donna può dirsi ‘libera’ dal doverla patire, ‘autonoma’ da essa. Neppure ‘la migliore’-anzi, proprio questa, proprio Alcesti ne mostra la necessità. E’ a questa necessità che si rivolge il Coro nel quarto, grande stasimo? “Nel cielo più alto, portato dalle Muse, io mi lanciai, e alle dottrine innumeri attinsi-ma nulla trovai più forte di AnankeDi questa dea sola non s’accede né a statua né ad ara. Né i sacrifici ascoltaNeanche il ferro dei Calibi doma la tua forza, né conosce pietà il tuo volere, che inaccessa ha la cima”[161].
Fatta questa precisazione, sentiamo quella di Del Corno:
“Ma a dettare questa necessità non sono più gli dèi, o gli oracoli che sono il verbo del progetto divino: nella Medea i nomi della divinità non sono altro che interiezioni convenzionali, manifestazioni del linguaggio. La necessità si genera da se stessa, è implicita nel mistero ultimo del reale. L’assenza del dio era il messaggio più duro che lo strenuo ardimento intellettuale di Euripide accollava alla tragedia. Per gridare questa tremenda verità, il paradosso di un’umanità provvista di ragione e abbandonata all’irrazionale, la scena del teatro doveva rappresentare l’atto più tremendo e paradossale: una madre che toglie la vita agli esseri ai quali ella stessa ha dato la vita”[162].
Sulla necessità nella tragedia greca si era espresso anche C. Pavese:”La situazione tragica greca è: ciò che deve essere sia . Di qui il meraviglioso dei numi che fanno accadere ciò che vogliono; di qui le norme magiche, i tabù o i destini, che devono essere osservati; di qui la catarsi finale che è l’accettazione del dovere essere”[163]. Di qui, aggiungo quell’accettazione del destino, quell’identificazione della persona con il suo destino che i Greci ci insegnano. La Callas, l’interprete della Medea di Pasolini, una volta, a un tale che la intervistava, disse che in quanto greca era necessariamente una fatalista.
Nietzsche fa cozzare l’accettazione greca del destino con il fatalismo turco il quale:” contiene l’errore fondamentale di contrapporre fra loro l’uomo e il fato come due cose separate…in verità ogni uomo è egli stesso una parte di fato..tu stesso, povero uomo pauroso, sei la Moira incoercibile, che troneggia anche sugli dei“[164].
Un’affermazione della Necessità più antica si trova nell’Agamennone di Eschilo:”to; mevllon h{xei” (v. 1240), il futuro verrà. Altrettanto nella Medea della Wolf:”Ciò che deve accadere, è deciso da tempo senza di noi” (p.171).
Secondo Eschilo anzi alla parte (Moira ) assegnata dal destino nemmeno Zeus può sfuggire ( Prometeo incatenato , 518), mentre, arrivando all’altro estremo della classicità, Platone, della generazione successiva a quella di Euripide, sostiene che l’asse dell’Universo è il fuso di Ananche (616c) il quale si volge sulle ginocchia (617b) di lei, madre delle Moire : Cloto, Atropo e Lachesi che appunto distribuisce le parti.
La donna offesa dall’uomo diventa una belva con i bambini: oltre la Medea di Euripide, di Seneca, di Ovidio, ricordiamo Idotea di Sofocle e Procne di Ovidio.
Nell’ottica dell’ex marito spaventato la preponderante parte emotiva di Medea diviene ferina e invade tutta la persona.
Giasone dopo l’infanticidio chiama l’ex moglie:”levainan, ouj gunai’ka, th'” Turshnivdo”-Skuvllh” e[cousan ajgriwtevran fuvsin”, Medea, vv. 1342-1343, leonessa, non donna, con l’indole più feroce della Tirrenia Scilla. Questa è la satanessa primordiale che Omero descrive come un mostro con sei teste e sei bocche, e ognuna di queste munita di tre file di denti con i quali ghermisce sei compagni di Ulisse ( Odissea , XII, vv. 85 e sgg.). Abbiamo già notato “quanta delicatezza d’animo sia necessaria per essere unvincitore di mostri”[165], una delicatezza che a Giasone manca. Gli è manca pure l’intelligenza necessaria a riconoscere l’identità della madre dei suoi figli prima della catastrofe. Similmente Tieste di Seneca riconosce la natura del fratello, troppo tardi: solo quando Atreo gli ha mostrato le teste dei figli che gli ha dato da mangiare:”Agnosco fratrem ” (Thyestes, 1007), riconosco mio fratello.
Comunque è stata l’offesa del letto a scatenare la ferocia della donna.
Seneca dalla sua Medea trae una legge valida pure per tutte le femmine umane:”Nulla vis flammae tumidique venti/tanta,nec teli metuenda torti,/quanta, cum coniux viduata taedis /ardet et odit ” ( vv. 580-583), non c’è forza di fiamma e di vento impetuoso tanto violenta, e non è spaventosa quella di un dardo scagliato, quanto allorché brucia e odia una moglie privata dell’amore.
La paura della donna (genitivo oggettivo) suggerisce spesso agli autori tali paragoni: un frammento di Menandro fa:”Qhrw’n aJpavntwn ajgriwtevra gunhv” (342 Ko-rte), tra tutte le fiere la donna è la più feroce. Un altro (371):” [[ Ison ejsti;n ojrgh// ‘/’ kai; qavlassa kai; gunhv “, nell’ira sono pari la donna e il mare. Infine (374):” [Ish leaivnh” kai, gunaiko;” wjmovth” “, è uguale a quella di una leonessa la crudeltà di una donna.
Un caso di matrigna inferocita e micidiale nei confronti dei figliastri è quello di Idotea, ricordata dal Coro nel quarto Stasimo dell’Antigone :”E presso le rupi blu del duplice mare/ci sono le sponde del Bosforo e la riva dei Traci /di Salmidesso, dove Ares vicino alla città/vide la maledetta ferita/inferta ai due Fineidi/ cecità inflitta da moglie violenta,/accecante nelle orbite gridanti vendetta degli occhi/trafitti sotto mani sanguinose e punte di spole”(seconda strofe, vv. 966-976). Le rupi blu sono le Simplegadi che cozzavano tra loro. C’è qualche cosa di artificiale e meccanico anche nel loro colore, “dello smalto azzurro cupo”.- Il duplice mare è costituito dal Ponto Eusino e dal Bosforo. I due Fineidi sono Ornito e Crambi, i due figlioli di Fineo, re di Salmidesso, e di Cleopatra, figlia di Borea e di Orizia. Questa prima moglie fu ripudiata e imprigionata dal marito che poi sposò Idotea (chiamata anche Idea) sorella di Cadmo, la quale, resa demente e feroce dalla gelosia suscitata dai due figliastri, li accecò con punte di spole e li fece gettare in carcere. Le spole, uno strumento di lavoro squisitamente donnesco, nella femmina infuriata diviene arma per infliggere piaghe orribili. In questo caso i figli non sono nati dalla carnefice stessa.
L’odio della matrigna per i figliastri è affermato pure da Alcesti morente che chiede al marito Admeto di non prendere un’altra donna in casa:”è ostile la matrigna che sopravviene nei confronti dei figli di quella di prima, per niente più benevola di una vipera ” ejcivdnh” oujde;n hjpiwtevra” (vv. 309-310).
Ancora più terribile però è la ferocia della donna verso i figli propri , colpevoli di essere nati da un amore capovoltosi in odio e di assomigliare al padre.
Tale belva viene riproposta da Ovidio nella figura di Procne la quale, vedendo il figliolo Itys venirle incontro, gli disse fissandolo con occhi crudeli:”ah quanto assomigli a tuo padre! (“oculisque tuens inmitibus “Ah! quam/es similis patri! “[166]. Subito dopo la Procne delle Metamorfosi prova un moto di tenerezza per il bambino che la bacia, ma poi guarda la sorella dalla lingua mozza e recupera tutta l’ira identificando di nuovo il figlio con il padre:”Scelus est pietas in coniuge Tereo” (VI, 635), è un delitto essere pietoso con un marito come Tereo!
Allora trascina il piccolo, divenuta come una tigre del Gange che trae per tenebrose foreste un cerbiatto lattante. Quindi, mentre il bimbo la invoca tendendo le mani e chiamandola mamma, gli caccia una spada tra il petto e il fianco; intanto la zia Filomela col ferro gli taglia la gola:”vivaque adhuc animaeque aliquid retinentia membra/dilaniant ” (VI, 644-645), e sbranano le membra che erano ancora vive e trattenevano ancora un poco di fiato.
Terribili dunque sono per tutti i maschi, nessuno escluso, sono queste donne offese dagli uomini. Non credo che siano rari i casi dei figli perseguitati dalle madri.
Abbiamo visto un altro caso di efferatezza muliebre, scatenata però dall’ambizione, in Lady Macbeth.
Torniamo di nuovo alla Medea senecana la quale prima della strage rinnova la preghiera alle forze del male: al caos cieco, alla buia dimora del tenebroso Dite (v. 741) e ad altre entità infernali perché accorrano alle nuove nozze di Giasone con Creusa dove invia i suoi figli con doni maledetti e letali per la sposa. Ella stessa nel congedare i bambini si definisce madre maledetta:”Ite, ite, nati, matris infaustae genus ” (v. 845), andate, andate figli, stirpe di madre maledetta!
La parola madre, che dovrebbe essere la più rassicurante per gli umani, diviene la più inquietante. Le madri possono significare un mondo antico, ctonio, bandito dalla luce, e la religione matriarcale, popolata dei mostri ibridi della mitologia inferiore, rappresenta una fase arcaica della cultura umana: Oreste vede terrorizzato le Erinni come Gorgoni dai neri pepli, e intrecciate di fitti draghi”(Coefore, 1048-1050).
Tali mostri sono “le rabide cagne della madre” (v. 1054), di sua madre Clitennestra da lui stesso uccisa.
Creature inquietanti sono anche nel Faust di Goethe quando Mefistofele fa:” A malincuore, svelo un grande enigma./ Auguste dee, troneggiano/in una sconfinata solitudine./Nessun paese, intorno./ E tempo, ancora meno./ A parlar di lor, ci si sconcerta./ Sono le Madri!”, e Faust, con un sussulto di spavento: “Madri?”, quindi Mefistofele:”Rabbrividisci?”, allora Faust:”Madri! Madri! /Misterioso suono!”, infine Mefistofele:”E misteriose sono!/A voi mortali sconosciute iddie,/a noi demonii nominarle spiace./ Per rintracciarne la dimora occulta,/ti toccherà frugare/nel più profondo baratro./La colpa è tua, se d’esse abbiam bisogno”[167].
Torniamo per un momento a Joyce che viceversa sottolinea il legame con la madre :” Amor matris , genitivo soggettivo e oggettivo, questa è forse l’unica cosa vera nella vita. La paternità forse è una finzione legale. Chi è il padre di un qualsiasi figlio perché qualsiasi figlio debba amarlo o viceversa…Il figlio nascituro guasta la bellezza: nato, porta dolore, separa l’affetto, accresce le preoccupazioni. E’ un maschio: la sua crescita è il declinare del padre, la sua giovinezza l’invidia del padre, il suo amico il nemico del padre…Che cosa mai li congiunge in natura? Un istante di cieca foia”[168].
Il giovane Stephen Dedalus sostiene che l’opera di Shakespeare è imperniata su rapporti familiari dolorosi e scellerati, in particolare quelli tra padri-figli e tra fratelli:”il tema del fratello traditore o usurpatore o adultero o tutti e tre in una volta è per Shakespeare quello che non è il povero, cioè sempre vicino al suo cuore. La nota dell’estraniamento, estraniamento dal cuore, estraniamento da casa sua, risuona ininterrottamente dai Due Gentiluomini di Verona in avanti fino al punto in cui Prospero rompe la verga, la nasconde un certo numero di tese sotto terra e affonda il libro” (p. 290).
Medea, tanto quella greca, quanto quella latina, annienta tutti i rapporti familiari. La sua famiglia è un vero e proprio campo di battaglia. Le imprecazioni si sprecano:”o maledetti (katavratoi) figli di madre tremenda (stugera’” matrov” , ossia una madre il cui sentimento dominante è l’odio, cfr. stugevw, “odio” appunto) , possiate morire col padre e tutta la casa vada in malora! (vv. 112-114) impreca quella di Euripide.
La Medea di Seneca agisce in questo ambito familiare come i personaggi furenti degli altri drammi:” Il mondo degli eroi senecani, devastato dagli odi e dagli inganni, è quello della famiglia; non è il fato a spingerli all’azione, ma sentimenti e pulsioni che scaturiscono da rapporti interpersonali, come la rivalità tra fratelli per il regno, o il risentimento per il vincolo matrimoniale tradito…Frater, pater, genitor, natus, noverca sono parole-chiave nel lessico di Seneca tragico: nella sua colpa Fedra è “matrigna” (noverca ), Medea è in bilico fra i suoi sentimenti di madre e di moglie offesa…Un aspetto importante dei drammi di Seneca è il loro mettere a nudo le difficoltà di preservare il nucleo familiare, e, insieme, la forza socialmente distruttiva che la sua disgregazione comporta”[169]. Noverca è un titolo negativo che spetta anche alla prima delle donne ambiziose della prima tragica famiglia imperiale di Roma: Livia ultima moglie di Augusto e madre di Tiberio fu “gravis in rem publicam mater, gravis domui Caesarum noverca “[170], opprimente verso lo Stato come madre, opprimente alla casa dei Cesari come matrigna. Più avanti incontreremo altre di queste donne rese funeste dall’ambizione.
La distruzione della famiglia dunque non è presente solo nella tragedia ma anche nella storia dello stesso periodo.
Tanto la tragedia di Seneca quanto quella di Euripide danno grande rilievo al terrore dell’identità minacciata.
Una sera uno psichiatra, uno dei tanti in televisione, sosteneva, davanti a una madre che aveva perduto un figlio quindicenne, che il dolore più grande per un essere umano è quello di venire abbandonato dalla persona più amata. Credo sia vero, ma c’è da aggiungere che quell’abbandono è dolorosissimo in quanto cambia, in un primo tempo sminuisce, l’identità. Quando ti lascia la persona con la quale tu avevi fatto progetti è come se perdessi un pezzo della tua vita.
In questo dolore del resto entra anche il danno della reputazione, secondo l’importanza che ha la dovxa nella cosidetta civiltà della vergogna. Sentiamo la Medea di Euripide:”Nessuno mi consideri stupida e debole, né mite, ma di indole diversa, violenta con i nemici e benevola con gli amici (barei’an ejcqroi'” kai; fivloisin eujmenh’); infatti la vita di tali persone è piena di gloria (eujkleevstato” bivo”)”, vv. 807-810. Alcesti viene definita eujklehv” (v. 150) , gloriosa per la sua benevolenza e per “il coraggio che si manifesta essenzialmente nel prestare aiuto, nell’aver cura, nel proteggere”[171]. Ecco le due vie della rinomanza: Medea vuole averne per il suo essere barei’a ejcqroi'” .
Già Solone nell’Elegia alle Muse chiede, quale bene supremo, oltre il benessere (o[lbon) la reputazione (dovxan):
“Splendide figlie della Memoria e di Zeus Olimpio,/Muse Pieridi, ascoltate la mia preghiera:/concedetemi il benessere da parte degli dei beati, e di avere una buona/reputazione da parte di tutti gli uomini sempre;/in modo che così possa essere dolce per gli amici e amaro per i nemici,/rispettato da gli uni, temibile a vedersi per gli altri” (vv. 1-6).
Questa alta considerazione di quanto pensanno gli altri di noi, induce a ricordare la definizione data da E. R. Dodds riguardo alla società descritta da Omero quale “Civiltà di vergogna” . In essa “il bene supremo non sta nel godimento di una coscienza tranquilla, ma nel possesso della timhv, la pubblica stima…La più potente forza morale nota all’uomo omerico non è il timor di Dio, è il rispetto dell’opinione pubblica, aijdwv”: aijdevomai Trw’a”[172], dice Ettore nel momento risolutivo del suo destino, e va alla morte con gli occhi aperti”[173].
Il cedimento alla pressione del conformismo sociale è caratteristico della cultura della vergogna dove per l’uomo è insopportabile “perdere la faccia”.
Esiodo (VIII-VII sec. a. C.) si trova su questa linea, quando consiglia di evitare la cattiva fama (fhvmh kakhv) che è leggera a sollevarsi (“kouvfh me;n ajei’rai”, Opere , v. 761), ma è pesante da portare ed è difficile togliersela di dosso (“ajrgalevh de; fevrein, caleph; d& ajpoqevsqai”, v. 762).
La Fama in Virgilio è la dea foeda (Eneide IV, 95) la dea oscena che infama Didone per l’amore con Enea, argomento sul quale torneremo:”malum qua non aliud velocius ullum:/mobilitate viget virisque adquirit eundo;/parva metu primo, mox sese attollit in auras/ingrediturque solo et caput inter nubila condit ” (Eneide , IV, 174-177), la Fama di cui nessun altro male è più veloce: ha la sua forza nella mobilità e acquista potenza con l’andare; piccola per paura dapprima, presto si alza nell’aria e avanza sulla terra e nasconde il capo tra le nubi.
In questa descrizione Virgilio ricorda quella che Omero fa di [Eri” a[moton memaui’a, la Discordia violentemente infuriata che dapprima si leva piccola ma poi cammina sulla terra arrivando al cielo con il capo (Iliade , IV, 440 sgg.).
Qualche cosa di questa culture of shame dunque arriva a Virgilio, mentre dal Critone di Platone (44C e sgg.) vediamo che a Socrate non importa niente dell’opinione dei più. Siamo nella “civiltà della colpa”: quello che conta è essere in pace con la propria coscienza. Critone sostiene che bisogna tenere conto della reputazione poiché la maggioranza è capace di compiere i più grandi mali, se uno viene calunniato da loro. Al che Socrate risponde: magari fossero capaci i più (“oiJ polloiv”, 44d) di compiere grandi mali, purché sapessero fare grandi beni. Ma non sanno fare né l’una né l’altra cosa e operano a casaccio (“poiou’si de; tou’to oJvti aj;n tuvcwsi”).
Alla civiltà di vergogna attenta soprattutto alla reputazione, torna Isocrate quando consiglia A Demonico di guardarsi dalle calunnie:”oiJ ga;r polloi; th;n me;n ajlhvqeian ajgnoou’sin, pro;” de; th;n dovxan ajpoblevpousin” (17), infatti i più ignorano la verità e guardano alla reputazione. Anche Tacito dà importanza alla fama, la reputazione, “quae in novis coeptis validissima est ” (Annales , XIII, 8) che all’inizio delle imprese ha grandissima importanza. Lo stesso autore è un critico della maggioranza che approvava un imperatore come Nerone, auriga e citaredo:”mox ultro vocari populus Romanus laudibusque extollere, ut est vulgus cupiens voluptatum et, si eodem princeps trahat, laetum ” (Annales , XIV, 14), poco dopo fu invitato il popolo romano e lo esaltava con le lodi, dato com’è il volgo cupido di piaceri e, se il principe tira dalla stessa parte, felice.
Tra i moderni la dichiarazione di noncuranza dell’opinione dei più, in quanto la massa è costituita da imbecilli, si trova in Un nemico del popolo (1882) di Henrik Ibsen il quale fa dire al dottor Stockmann :” Il più pericoloso nemico della verità e della libertà, fra noi, è, se proprio volete saperlo, sì, è la maggioranza, la solida e compatta maggioranza, la maledetta maggioranza democratica…chi è che forma in un paese la maggioranza, gli intelligenti o gli imbecilli?..di imbecilli se ne trova una maggioranza schiacciante…La maggioranza ha la forza, sì, per nostra sciagura, ma non la ragione. No! La ragione l’abbiamo io e pochi altri. E’ la minoranza, sono i pochi che hanno ragione!… Queste verità di maggioranza sono come la carne affumicata dell’altr’anno, sì, altrettanto rancide e putrefatte. Ed ecco dove nasce tutto questo scorbuto spirituale che dilaga e si diffonde in tutte le classi sociali!” Chi adotta le opinioni dei superiori è un plebeo dell’intelligenza e un immorale. “l’unica moralità piaccia o no, consiste nell’indipendenza di giudizio, nel libero pensiero”[174].
Ma la moralità è il valore più importante solo per chi è andato oltre la civiltà di vergogna poiché soltanto una persona siffatta sa che “non vi è profonda felicità senza morale profonda”[175].
Ebbene, Medea è del tutto immersa nella civiltà di vergogna.
Anche quella di Apollonio nel terzo monologo (Le Argonautiche , III, vv. 770-801) che poi è “il primo monologo interiore della storia letteraria” è angosciata, tra l’altro, per il giudizio del mondo esterno:”le donne di Colchide portandomi di bocca in bocca mi biasimeranno sconciandomi” (vv. 794-795).
La barbara dunque soffre la derisione del prossimo, eppure possiede quel terribile e tipico carattere dispotico (deinovn turavnnwn lh’ma, v. 119) che non accetta controlli.
Concediamoci una breve digressione sulla tipologia del tiranno.
“Proprio questo caratterizza il monarca, poter fare ciò che vuole senza essere soggetto ad alcun controllo”[176]. La trofov” (nutrice) di Medea biasima la sfrenatezza derivata dalla prepotenza cui ella contrappone l’uguaglianza:”Deina; turavnnwn lhvmata kai; pw”-ojlig& ajrcovmenoi, polla; kratou’nte”,-calepw'” ojrga;” metabavllousin.-To; ga;r eijqivsqai zh’n ejp& i[soisin-krei’sson” (vv. 119-123), terribile è l’animo dei tiranni e poiché di rado come che sia sono subordinati, e il più delle volte comandano, difficilmente elaborano le ire. Infatti essere abituati a vivere in condizioni di uguaglianza, è meglio.
E’ una caratteristica della tirannide quella di non subire alcun controllo. Lo leggiamo anche nei vv. 506- 507 dell’Antigone :” Ma la tirannide in molte altre cose ha successo/e per giunta le è possibile sia dire sia fare ciò che vuole”.
Qui si tratta di un tiranno maschio, despota della povli”.
Nelle Storie di Erodoto la teoria antitirannica è attribuita al nobile persiano Otane il quale, nel dibattito costituzionale, contrappone la monarchia, in pratica una tirannide, al potere del popolo che prima di tutto ha il nome più bello: ” ijsonomivhn”, poi non fa nulla di quanto perpetra l’autocrate: infatti esercita a sorte le magistrature ed ha un potere soggetto a controllo:” uJpeuvqunon de; ajrch;n e[cei” (III, 80, 6). Tiranno per il greco Erodoto è anche il mouvnarco” raffigurato da Otane nel dibattito sulla migliore costituzione (III, 79-84) come colui che “novmaiav te kinevei pavtria kai; bia’tai gunai’ka” kteivnei te ajkrivtou”” (III, 80, 5) sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio. Così vengono assassinati i figli di Giasone.
“Così il persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo comune fra i Greci per l’opposizione alla tirannide”[177].
Nelle tragedie il tiranno è il paradigma mitico di questo principio. Così è Edipo, così Creonte di Sofocle, così Serse il quale nei Persiani di Eschilo, pur se sconfitto, è “oujc uJpeuvquno” povlei” (v. 213), non è tenuto a rendere conto alla città come un capo democratico. Tale è pure Zeus nel Prometeo incatenato :”tracu;” movnarco” oujd& uJpeuvquno” kratei'” (v. 324), sovrano rigido né impera obbligato a rendere conto. Ma Zeus è un dio.
Un altro personaggio tragico che afferma questa legge è Lady Macbeth nella scena del sonnambulismo:”What need we fear who knows it, when none can call our power to account it?” (V, 1), perché dovremmo temere chi lo sappia quando nessuno può chiamare la nostra potenza a renderne conto?
Adesso questo potere nelle case è detenuto da un elettrodomestico cui i poteri forti hanno asservito i più :”La televisione è diventato un potere incontrollato e qualsiasi potere non controllato è in contraddizione con i princìpi della democrazia”[178]. Questa scena è in prosa:”il ritmo regolare del verso sarebbe inadatto dove si suppone che la mente abbia perduto il suo equilibrio e sia alla mercè di casuali impressioni provenienti dal di fuori (come talvolta avviene con Lear) o di idee che emergono dalle profondità dell’inconscio e si incalzano a vicenda attraverso la passiva superficie dell’intelligenza. Il sonnambulismo di Lady Macbeth è una condizione del genere”[179].
Medea dunque non subisce controlli e scatena l’ira.
Anche questa è tipica dei tiranni e nella donna furente è causata non solo dall’amore per Giasone che l’ha tradita ma anche dall’amor proprio offeso:”Kaivtoi tiv pavscw; bouvlomai gevlwt& ojflei’n-ejcqrou;” meqei’sa ajzhmivou”;-tolmhtevon tavd&” (vv. 1049-1051), ma che cosa mi succede? voglio dare motivo di scherno ai miei nemici lasciandoli impuniti? Bisogna osare questo.-tolmhtevon: aggettivo verbale di tolmavw, oso, ho l’ardire (tovlma). Medea proclama la necessità dell’audaci più folle e criminale.
La transvalutazione lessicale.
Tovlma non è qravso”, coraggio, quale buona attitudine e consuetudine morale, o quale ardimento eroico che può condurre ad atti eccessivi ma connotati da grandezza che suscita ammirazione e comprensione, come in Antigone (v. 853-855:”proba’s& ejp& e[scaton qravsou”-uJyhlo;n ej” Divka” bavqron-polu; prosevpaisa”, w’j tevknon”, giunta all’estremo ardimento, hai cozzato forte contro l’alto gradino della giustizia, creatura), bensì sconsiderata temerarietà che porta a commettere azioni cattive: nelleTrachinie Deianira si augura:”kaka;” de; tovlma” mhvt& ejpistaivmhn ejgwv” (v.582), che io non sia capace di cattivi ardimenti; quindi aggiunge:”tav” te tolmwvsa” stugw’ ” (v.583) le temerarie hanno il mio odio. Il significato negativo di tovlma si trova anche nel Primo Stasimo dell’Antigone:” a[poli” o{tw/ to; mh; kalo;n-xuvnesti tovlma” cavrin” (vv. 370-371), bandito dalla città è quello con il quale /coesiste il brutto morale, per la sfrontatezza. Questa sfrontatezza non trattiene l’uomo al di qua del limite che deve rimanere insuperato per quel senso della misura che è caratteristico dell’uomo greco.
Nel commento di Heidegger tovlma è “il rischio” nel quale “sta costantemente il violentante, il creatore, il quale avanza nell’inespresso e irrompe nel non pensato, e che a forza ottiene il non-accaduto e fa apparire il non-veduto. Nell’arrischiarsi a dominare l’essere, deve altresì abbandonarsi al flusso del non-essente, mh; kalovn, alla distruzione, all’instabilità, all’indocilità, al disordine”. [180]
Nell’ Edipo re (v. 125) tovlmh è l’audacia del predone che uccise Laio, ossia quella di Edipo stesso.
Medea sta conducendo una lotta intestina, all’interno della sua famiglia oltretutto. e nei conflitti interni i valori usuali delle parole si capovolgono: lo afferma Tucidide a proposito della guerra civile (stavsi”) di Corcira quando ci fu una tranvalutazione generale e le stesse parole cambiarono il loro significato originario:”Kai; th;n eijwqui’an ajxivwsin tw’ ojnomavtwn ej” ta; e[rga ajnthvllaxan th’/ dikaiwvsei. Tovlma me;n ga;r ajlovgisto” ajndreiva filevtairo” ejnomivsqh” (III, 82, 4), e cambiarono arbitrariamente l’usuale valore delle parole in rapporto ai fatti. Infatti l’audacia irrazionale fu considerata coraggio devoto ai compagni di partito.
La differenza è che Medea non ha compagni ed è rimasta sola con la sua filautiva (amor proprio) da difendere. Del resto l’audacia in una donna difficilmente viene considerata una virtù: si pensi alla famigerata Sempronia sallustiana:”quae multa saepe virilis audaciae facinora commiserat ” (Bellum Catilinae, 25) che spesso aveva perpetrato misfatti di audacia virile. Nella stessa monografia di Sallustio è Catone che, parlando in senato dopo e contro Cesare, il quale aveva chiesto di punire i congiurati “solo” confiscando i loro beni e tenendoli prigionieri in catene nei municipi, denuncia questa tranvalutazione delle parole:”iam pridem equidem nos vera vocabula rerum amisimus: quia bona aliena largiri liberalitas, malarum rerum audacia fortitudo vocatur, eo res publica in extremo sita est ” (52, 11), già da tempo veramente abbiamo perduto la corrispondenza tra il valore reale dei nomi e le cose: poiché essere prodighi dei beni altrui si chiama liberalità, l’audacia nel male coraggio, perciò la repubblica è ridotta allo stremo. Simile transvalutazione è notata nel Macbeth da Lady Macduff:” I am in this earthly world where to do harm Is often laudable; to do good, sometime Accounted dangerous folly ” (IV, 2), io son in questo mondo terrestre dove fare il male è spesso cosa lodevole; fare il bene qualche volta è tenuto in conto di pericolosa follia.
Una parola il cui significato si è capovolto nel corso della mia vita adulta è “moderato” che dal ’68 sino alla fine degli anni Settanta suonava malissimo e ora suona benissimo. Alle orecchie dei più dico.
La Medea di Euripide insomma vuole salvare non solo la propria immagine ma anche la propria identità quale viene descritta dalla nutrice già nel prologo:”bareiva ga;r frhvn, oujd& ajnevxetai kakw”‘ -pavscous& (vv. 38-39)…deinh; gavr: ou[toi rJa/divw” ge sumbalw;n-e[cqran ti” aujth’/ kallivnikon oi[setai” (vv. 44-45), poiché ha una mente violenta e non sopporterà di essere maltrattata…infatti è terribile e nessuno di certo che abbia messo una relazione di odio insieme con lei potrà cantare vittoria.
Per bareiva cfr. v. 807 e considera che Medea diventando quello che vedeva in lei la nutrice la quale la conosceva sin da bambina ha realizzato le sue tendenze.
Questo matrimonio orrendamente infelice induce il Coro a negare l’opportunità di mettere al mondo dei figli, ribadendo, a maggior ragione quanto aveva detto Euripide nel primo Stasimo dell’Alcesti (vv. 238-242, già citati) contro le nozze.
Sentiamo questa espressione di sfiducia delle donne di Corinto nella paternità e nella maternità:”Kai; fhmi brotw’n, oi[tinev” eijsin-pavmpan a[peiroi mhd& ejfuvteusan-pai’da”, profevrein eij” eujtucivan-tw’n geinamevnwn” ( Medea, vv. 1090-1093) e affermo che tra i mortali quelli che sono del tutto inesperti di procreazione e non hanno generato dei figli, superano nella fortuna coloro che li generarono[181].
Ho tradotto eujtuciva del v. 1092 con “fortuna” invece che “felicità” poiché questa non è data a nessuno.
Lo afferma il messo dopo avere narrato la morte atroce di Glauce e Creonte, ossia della sposa e del suocero di Giasone:” :”qnhtw’n ga;r oujdeiv” ejstin eujdaivmwn anh;r: – o[lbou d& ejpirruevnto” eujtucevstero”- a[llou gevnoit& a[n a[llo”, eujdaivmwn d& a[n ou[.”( Medea, vv.1228-1230), nessuno infatti tra i mortali è un uomo felice: quando passa un’ondata di prosperità, uno può diventare più fortunato di un altro, ma felice nessuno.
Euripide esprime simile negazione della felicità anche in un verso del prologo della perduta Stenebea citato da Aristofane :” oujk e[stin oJvsti” pavnt& ajnh;r eujdaimonei'” ( Rane , v. 1217), non c’è uomo che sia del tutto felice. Glauce è la promessa sposa di Giasone fatta morire dalla Medea di Euripide.
La Medea di Christa Wolf invece cerca di aiutarla a scendere “in quell’ abisso dove giacciono le immagini del passato” ossia a guardare il rimosso con ricordo dell’uccisione della sorella Ifinoe “la fanciulla sacrificata sull’altare del potere”[182]. Infatti quell’assassinio fu ordinato da suo padre Creonte, il re di Corinto, come quella di Ifigenia da Agamennone. “In quella voragine dove io mi vidi seduta, molto piccola ancora, in lacrime, inconsolabile, sulla soglia di pietra tra una delle stanze del palazzo e il lungo corridoio gelido. Che camera era, quella sulla cui soglia sedevo, volle sapere, ma io non volevo guardarmi intorno, avevo paura, lei mormorò le sue formule tranquillizzanti, allora fui costretta a voltarmi. Era una camera in cui viveva una ragazza. C’era una cassapanca dipinta con colori meravigliosi, sul letto erano sparsi dei vestiti, su una mensola stava un piccolo specchio incorniciato d’oro, ma nessun segno di chi potesse viverci. Tu lo sai Glauce, disse la donna[183], tu lo sai bene. No gridai, no, urlai, non lo so, come potrei saperlo, è sparita, mai più ricomparsa, nessuno l’ha mai più nominata, anche la camera è sparita, probabilmente mi sono solo immaginata tutto questo, probabilmente non è mai esistita. Chi, Glauce, chiese la donna. La sorella, urlai. Ifinoe” [184].
Non è possibile certificare la felicità di un uomo per l’imprevedibilità della vita umana.
Questo è uno dei grandi tovpoi della letteratura classica. Do alcune testimonianze.
Si tratta di un motivo sapienziale arcaico già presente in Archiloco (fr. 58D.):”toi'” qeoi'” tiqei’n aJvpanta….pollavki” d& ajnatrevpousi kai; mavl& eu’j bebhkovta”/uJptivou” klivnous&”, bisogna attribuire ogni cosa agli dei…spesso rovesciano e stendono supini anche quelli ben saldi.
Pindaro afferma che Tantalo era l’uomo più amato dagli dèi che lo onoravano frequentando la sua mensa; egli però non seppe smaltire la grande felicità:” se mai i protettori dell’Olimpo onorarono un uomo/mortale, era Tantalo questo; però/ di fatto non seppe/digerire la grande felicità, e con la sazietà attirò/un accecamento pieno di prepotenza, e su di lui/il padre sospese un macigno pesante,/che egli desidera sempre stornare dal capo/ed erra lontano dalla gioia. (Olimpica I, vv. 54-61).
“E’ il culmine della felicità quando gli dèi si assidono alla nostra tavola e portano i loro doni-ma da quel momento non è possibile che tramontare. “I venti che soffiano sulle cime incessantemente mutano. La felicità non dura a lungo ai mortali, quand’essa viene nella sua pienezza” (Pindaro, Pitiche, III, 104-106)” [185].
Anche Sofocle afferma più di una volta questa insicurezza .
L’immagine dell’ altalena fatale si trova nell’esodo dell’Antigone là dove (vv.1157-1158) il messo sentenzia:”tuvch ga;r ojrqoi’ kai; tuvch katarrevpei-to;n eujtucou’nta to;n te dustucou’nt& ajeiv, la sorte infatti raddrizza e la sorte butta giù/ il fortunato e il disgraziato via via.
Nell’Edipo re il coro chiede ad Apollo:”intorno a te ho sacro timore: che cosa, o di nuovo/o con il volgere delle stagioni (“peritellomevnai” wJvrai””) un’altra volta/effettuerai per me?”(vv. 155-157). In questo scorrere rapido dei giorni, in questo girare vorticoso delle stagioni, avvengono mutamenti continui e alcune cose si ripetono, ma altre accadono inopinatamente.
Gli ultimi versi di questo dramma (1528-1530) fanno : sicché, uno che sia nato mortale, non ritenga felice nessuno,/considerando quell’ultimo giorno a vedersi, prima che/abbia passato il termine della vita senza avere sofferto nulla di doloroso (“pri;n aj;n /tevrma tou’ bivou peravsh/ mhde;n ajlgeino;n paqwvn”).
L’imprevedibilità del futuro è denunciata anche da Deianira all’inizio delle Trachinie (vv. 1-3) :” esiste un antico detto (“Lovgo” me;n e[st& ajrcai’o””) diffuso tra gli uomini: che non puoi conoscere la vita di un uomo prima che uno sia defunto, né se per lui sia stata buona o cattiva”.
Queste parole ribadiscono gli insegnamenti delfici del conoscere, anche attraverso se stessi, la natura umana, i suoi limiti e pure le sue connessioni con il cosmo, per rifuggire ogni eccesso, ogni rottura dell’equilibrio e dell’armonia.
Pure Euripide, che è critico verso l’oracolo di Delfi e la sua pretaglia, tuttavia afferrma tale impossibilità di prevedere.
Aristofane nelle Rane fa recitare al personaggio Euripide i primi due versi della sua Antigone che non ci è arrivata:” Edipo dapprima era un uomo felice” (v. 1182)…”ma poi divenne viceversa il più infelice dei mortali” (v. 1187). Ogni giorno infatti è assolutamente diverso dal precedente. Il celebre e un tantino volgare “domani è un altro giorno” di Via col vento , insomma può essere autorizzato e nobilitato entrando in una serie di citazioni tratte dalla letteratura antica.
Si trovano concetti analoghi in diversi drammi del tragediografo più giovane.
Partiamo dalle Baccanti ” to; de; kat& h’jmar oJvtw/ bivoto”-eujdaivmwn, makarivzw” ( , vv. 910-911), considero beato l’uomo la cui vita è felice giorno per giorno.
Gli ultimi cinque versi fanno:” Molte sono le forme della divinità,/e molti eventi fuori dalle nostre speranze (ajevlptw”, v. 1388) portano a compimento gli dèi;/e i fatti attesi non si avverarono,/mentre per quelli inaspettati un dio trovò la via./Così è andata a finire questa azione”(vv. 1388-1392). Identica è la conclusione dell’Alcesti, dell’Andromaca , dell’Elena; nella Medea sono uguali gli ultimi quattro versi (1416-1419).
Nell’Ippolito il coro sentenzia:” oujk oi’jd& oJvpw” ei[poim& aj;n eujtucei’n tina-qnhtw’n: ta; ga;r dh; prw’t& ajnevstraptai pavlin”(vv. 981-982), non so come potrei dire che alcuno dei mortali è fortunato: infatti le posizioni più alte vengono rovesciate.
Nell’Ecuba la vecchia regina, dopo il sacrificio-assassinio della figlia Polissena constata la vanità della ricchezza e del potere, quindi conclude:”kei’no” ojlbiwvtato” ,- oJvtw/ kat& h’jmar tugcavnei mhde;n kakovn”(vv. 627-628), il più fortunato è quello cui giorno per giorno nessun male tocca.
Nelle Troiane la vedova di Priamo dice:”nessuno dei felici considerate che sia fortunato, prima che sia morto”(vv. 509-510).
In un’altra cara tragedia di Euripide, l’Andromaca , leggiamo:”Crh; d& ou[pot& eijpei’n oujdvevn& o[lbion brotw’n-pri;n aj;n qanovnto” th;n teleutaivan i[dh/”-oJvpw” peravsa” hJmevran hJvxei kavtw”(vv.100-102), non bisogna dire mai felice uno dei mortali/prima che tu abbia visto l’ultimo giorno/ del morto, come, avendolo passato, andrà laggiù.
Questa morale insomma si stende durante l’intero arco della produzione euripidea e siccome i drammi nominati sopra non finiscono tutti bene, né tutti male, non si può dire che essa sia ottimistica, e nemmeno pessimistica: è una constatazione della mutevolezza e imprevedibilità della tuvch, una forza soprannaturale che durante l’età ellenistica acquisterà altro credito e sostituirà tutti gli dèi dell’Olimpo e degli Inferi.
Dunque poiché la vita umana è imprevedibile, non si può chiamare felice chi non l’ha ancora compiuta tutta.
Questa non prevedibilità della vita fa parte non solo della sapienza tragica, ma anche di quella erodotea, il cui Solone dichiara a Creso che essendo la vita umana fatta mediamente di 26250 giorni nessuno di loro porta una situazione uguale all’altro, pertanto l’uomo è del tutto in balìa degli eventi (“pa’n ejsti a[nqrwpo” sumforhv” (I, 32, 4). Quindi, sebbene il saggio abbia visto che il re di Lidia è ricco e potente, non può dirgli se sia felicissimo prima di avere avuto la notizia che ha finito bene la vita.
Mazzarino mette in rilievo che nell’opera di Erodoto è ricorrente la domanda:”Son felici il ricco e il monarca?…A questa domanda rispondono i discorsi tra Creso e Solone…anche Anassagora si sforzava di rispondere alla stessa domanda…secondo Anassagora il dotto soprattutto era felice”[186]. Su questa linea anche Platone che nel Gorgia (470e) fa dire a Socrate che non può dire se il gran re dei Persiani sia felice poiché non sa come stia quanto a paideia e a giustizia:”ouj ga;r oi’j’j’j da paideiva” o{pw” e[cei kai; dikaiosuvnh” ; quindi, a Polo che lo incalza chiedendogli se la felicità consista in questo, risponde che l’uomo e la donna sono felici quando sono belli e buoni, quando sono ingiusti e malvagi invece sono infelici.
Essere felici secondo Strabone, geografo dell’età di Augusto, è un atto di pietas :”gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene, ma si potrebbe dire ancor meglio quando sono felici (oJvtan eujdaimonw’si)”[187].
“Ognuno deve essere pienamente consapevole che la propria vita è un’avventura anche quando la crede chiusa in una sicurezza da burocrate: ogni destino umano comporta un’irriducibile incertezza anche nella certezza assoluta, che è quella della sua morte, poiché ne si ignora la data. Ognuno deve essere pienamente consapevole di partecipare all’avventura dell’umanità, che è, ormai con una velocità accelerata, proiettata verso l’ignoto”[188].
Tucidide viceversa ha la pretesa di assicurarci, dandoci regole per i fatti che si ripresenterebbero sempre nello stesso modo.
In un testo molto più recente, le Metamorfosi di Ovidio, troviamo la medesima sentenza della tragedia e di Erodoto, a proposito di Cadmo:”sed scilicet ultima semper/exspectanda dies hominis, dicique beatus/ante obitum nemo supremaque funera debet “(III, 135-137), ma certo bisogna sempre aspettare l’ultima ora dell’uomo e nessuno deve essere chiamato felice prima della morte e delle esequie estreme.
Né si trova solo in poesia tale idea: Platone nelle Leggi (VII, 801e, 802a) afferma che “non è cosa sicura onorare i viventi con inni e canti prima che ciascuno abbia percorso fino in fondo tutta la vita”. Per quanto riguarda la prosa latina, riferisco la formulazione di Valerio Massimo[189], attribuita, come da Erodoto, a Solone[190]:”quam prudenter Solo neminem, dum adhuc viveret, beatum dici debere arbitratur, quod ad ultimum usque fati diem ancipiti fortunae subiecti essemus “(Factorum et dictorum memorabilium , VII, 2, ext., 2) quanto saggiamente Solone pensa che nessuno, fino a quando vive, debba essere chiamato felice, poiché fino all’ultimo giorno assegnatoci dal fato siamo soggetti alla sorte incerta.
Ho insistito su questo tovpo” dandone parecchie, forse fin troppe testimonianze poiché adesso i più cercano disperatamente, e risibilmente, di assicurarsi su tutto, da tutto. La grande angoscia di questi giorni di guerra (autunno 2001) deriva in massima parte dallo squarcio che si è aperto orrendamente nella stupida illusione della programmabilità e prevedibilità della nostra vita dal primo momento all’ultimo. Per chiudere la scheda riferisco alcune calzanti parole di Umberto Galimberti in un articolo dal titolo “La condizione dell’angoscia”:”L’azione terroristica ha incrinato in noi occidentali quella condizione base della vita quotidiana che è la prevedibilità del domani, senza la quale non prende avvio nessuna iniziativa, e le azioni che abitualmente ci impegnano ricadono su se stesse, perché hanno perso importanza, spessore, investimento, valore. Al loro posto è subentrata sottile e pervasiva, come condizione dell’anima, quell’angoscia primitiva, per difendersi dalla quale l’uomo occidentale ha inventato la sua storia. Quest’angoscia si chiama:”Angoscia dell’imprevedibile“[191].
Lo stesso torna sull’argomento nell’aprile successivo dopo il colpo inflitto da un piccolo aereo al “Pirellone” di Milano che il presidente della regione Formigoni ha definito simbolo della Lombardia ricca e produttiva: meno benevolmente un simbolo di presunzione, l’attualizzazione della torre di Babele quale l’ha raffigurata Pieter Bruegel [192], comunque un simbolo. Simbolici e latori di angoscia secondo Galimberti sono anche gli schianti degli aerei, chiunque li piloti:”Quest’angoscia si chiama: angoscia dell’imprevedibile, di fronte al quale non posso scappare, per cui il meccanismo che si attiva non è quello “difensivo” della paura, ma quello “paralizzante” dell’angoscia che svela la vulnerabilità della nostra tecnologia, arresta lo sviluppo della nostra economia, intimorisce il mondo della vita che si fa più prudente, più cauto, più riparato, meno espansivo, più contratto. Come l’11 settembre, anche se l’episodio di Milano non ha alcuna parentela con l’evento di Manhattan, di nuovo abbiamo assaporato quanto precari sono i pilastri della nostra fiducia nel domani, se è vero che la nostra tecnologia, espansa fino alla zona più remota della terra, è un apparato potentissimo ma anche fragilissimo, e la nostra economia, espansa anch’essa fino alla zona più remota della terra, può crollare non per ragioni economiche, ma per quel sentimento primitivo che è l’angoscia dell’imprevedibile”[193].
Medea reagisce come un eroe omerico e sofocleo.
Nell’esodo della Medea di Euripide Giasone, come si è detto, riconosce l’indole ferina della donna che ha ammazzato i loro figlioli apostrofandola come “leonessa” (v. 1342) ed echeggiando il “divpou” levaina”, bipede leonessa con cui nell’Agamennone di Eschilo (v. 1258), Cassandra individua Clitennestra, la moglie adultera e assassina . Quindi il padre privato della prole aggiunge una maledizione con epiteti che caratterizzino la donna in maniera del tutto negativa:” e[rr&, aijscropoie; kai; tevknwn miaifovne”(v. 1346), vattene in malora, autrice di nefandezze e macchiata del sangue dei figli!
Al che ella risponde come un eroe omerico per il quale il dolore più grande è non ricevere l’onore (timhv) dovuto al suo valore (ajrethv):”su; d& oujk e[melle”, ta[m& ajtimavsa” levch-terpno;n diavxein bivoton, ejggelw’n ejmoiv” (vv. 1354-1355), tu non dovevi, disonorato il mio letto, vivere una vita felice irridendomi.
Medea inorridisce all’idea di essere ridicolizzata per lo smacco del letto e preferisce essere conosciuta quale artefice di mali estremi piuttosto che come amante rifiutata: alla fine del primo episodio dice a se stessa:” jora/'” aJ; pascei”; ouj gevlwta s&ojflei’n–toi'” Sisufeivoi” toi’sd& jIavsono” gavmoi”,-gegw’san ejsqlou’ patro;” JHlivou t& a[po.– jEpivstasai dev: pro;” de; kai; pefuvkamen–gunai’ke”, ej” me;n e[sql& ajmhcanwvtatai,–kakw’n de; pavntwn tevktone” sofwvtatai”(vv. 404-409), vedi quello che soffri? non devi dare motivo di derisione ai discendenti di Sisifo[194] per queste nozze di Giasone, tu che sei nata da nobile padre e discendi dal Sole. E poi lo sai: oltretutto noi donne siamo per natura assolutamente incapaci di nobili imprese, ma le artefici più sapienti di tutti i mali.
Il motivo della paura della derisione è presente anche nell’Antigone dove la ragazza protagonista, pur del tutto diversa da Medea, scambia le espressioni consolatorie del Coro per parole canzonatorie della sua infelicità, e offensive della sua persona, quindi dice:” :”Ahimé sono derisa (oi[moi gelw’mai). Perché, per/gli dei patrii,/non mi oltraggi quando sono sparita,/ma mentre sono visibile?” (vv. 839-841). Tale fraintendimento rende l’idea dell’incomprensione reciproca tra la fanciulla e le altre creature viventi, anche benevole. Oramai la figlia di Edipo si intende soltanto con i morti. Queste donne, dicevo, hanno qualcosa in comune con gli eroi omerici, in particolare con Achille.
Anche Didone in procinto di essere abbandonata da Enea soffre pensando di essere derisa dai pretendenti rifiutati prima:”En quid ago? rursusne procos inrisa priores/ experiar?” (Eneide, IV, 534-535), ora che cosa faccio? a mia volta farò tentativi, derisa, con i pretendenti di prima? Il timore della derisione invece a Madame Bovary deriva dalla goffaggine e l’importunità del marito:”Temo che i sottopiedi mi daranno fastidio nel ballare”, disse lui. “Ballare?” disse Emma. “Sì!” “Ma tu hai perduto la testa! Farai ridere tutti, sta’ tranquillo al tuo posto. Del resto,” aggiunse, ” è quello che si addice di più a un medico”[195].
B. M. W. Knox sottolinea la “rappresentazione in termini eroici di una moglie straniera e ripudiata” assimilando la Medea di Euripide soprattutto agli eroi sofoclei, e in modo particolare ad Aiace : “Sia Aiace sia Medea temono più di ogni altra cosa al mondo lo scherno dei loro nemici…Medea è presentata al pubblico nello stile e nel linguaggio inconfondibile di un eroe sofocleo…Il suo più grande tormento è il pensiero che i suoi nemici rideranno di lei (gelos 383 ecc.): come gli eroi sofoclei maledice i propri nemici (607 ecc.) mentre progetta la vendetta…Come un eroe sofocleo, resiste tanto agli inviti alla moderazione quanto ai duri richiami della ragione…Questa rappresentazione…deve avere messo un pò a disagio il pubblico che la vide per la prima volta nel 431 a. C. Gli eroi, questo si sapeva, erano creature violente e, dal momento che vivevano e morivano secondo la semplice regola ‘aiuta i tuoi amici e fa del male ai tuoi nemici’ era prevedibile che le loro vendette, quando si fossero sentiti trattati ingiustamente, disonorati, offesi, fossero immense e mortali. I poemi epici non mettono mai in discussione il diritto di Achille di portare distruzione nell’armata greca per vendicare l’assalto di Agamennone né il massacro dell’intera giovane generazione dell’aristocrazia di Itaca compiuta da Ulisse. L’Aiace di Sofocle non vede niente di sbagliato nel proprio tentativo di uccidere i comandanti dell’armata per avergli negato le armi di Achille; in lui la vergogna nasce semplicemente dall’aver fallito il suo tentativo sanguinario. Ma Medea è una donna, una moglie e una madre, e per di più una straniera. Inoltre si comporta come se fosse una combinazione tra la nuda violenza di Achille e la fredda astuzia di Ulisse e, quel che è più importante, è in questi termini che le parole del dramma di Euripide ce la presentano. ‘Nessuno deve considerarmi un’incapace’ ella dice ‘o un debole o una persona mite. Altro è il mio carattere: violenta con i nemici e con gli amici buona. Quelli che si comportano così hanno la vita più gloriosa.’ (807 ss.). E’ il credo secondo cui vivono e muoiono gli eroi di Omero e di Sofocle[196] “. Anche Apollonio Rodio attribuisce alla sua Medea adolescente qualche cosa di omerico quando le attribuisce la ejpivklopo” mh’ti” , la scaltra intelligenza di Odisseo (III, 912).
Nell’Iliade il compenso che il prode si aspetta in cambio dell’ ajrethv dimostrata obbedendo agli obblighi del suo rango e della sua identità eroica, impegnativi fino al sacrificio, è un riconoscimento in termini di onore: la timhv negata è una tragedia per il valoroso che si è distinto in battaglia: Achille si rifiuta di combattere solo quando constata che l’uomo codardo e il valoroso sono tenuti nello stesso onore:” ejn de; ijh’/ timh’/ hjme;n kako;” hjde; kai; ejsqlov””[197] . Sua madre infatti implora Zeus di onorargli il figlio:”tivmhsovn moi uiJovn”[198], onora mio figlio-prega-, poiché è di vita più breve degli altri, e il signore di genti Agamennone lo disonorò (“hjtivmhsen”[199]) : gli ha preso il suo dono e lo tiene.
Il disonore della donna è quello del letto: un uomo a lei gradito già la disonora se non fa l’amore con lei, e la disonora due volte se lo fa con un’altra. Tant’è vero che le “ardite femmine spietate”[200] di Lemno uccisero tutti i maschi dell’isola per l’ira tremenda di Cipride causata dal fatto che i mariti da lungo tempo non rendevano più gli onori loro dovuti (Argonautiche, I, 615). Esse uccisero non solo i consorti e le loro amanti, le schiave tracie[201], ma ognuno che fosse maschio. Solo Issipile risparmiò il vecchio padre, il re Toante.
Achille dunque smette di combattere facendo così morire i suoi compagni e addirittura il suo miglior amico, Medea uccide i figli. Quando Giasone le domanda: hai ritenuto giusto ucciderli per il letto (“levcou”…ou[neka”, v. 1367)?, la madre oltraggiata risponde:”smikro;n gunaiki; ph’ma tou’t& ei’jnai dokei'”;” (v. 1368), pensi che questa sia una sciagura piccola per una donna?
Anzi, è tanto grande che Medea, per contrappesarla adeguatamente, infliggendone una altrettanto grande a chi glel’ha inflitta, ha già deciso di ammazzare i figli comuni, pur a lei cari.
Achille e Medea hanno in comune il “non cedere” eroico. Il figlio di Peleo non può cedere in battaglia quando vi torna: “ouj lhvxw , non cederò grida in Iliade , XIX, 423 rispondendo alla predizione di morte del cavallo fatato Xanto; e la Nutrice di Medea racconta:”Già infatti l’ho vista mentre fissava con furia taurina/questi bambini, come se avesse in animo di fare qualcosa; e non cesserà/dall’ira (oujde; pauvsetai-covlou, vv. 93-94), lo so bene, prima di avere assalito qualcuno./Spero lo faccia almeno con i nemici, non con i suoi cari” (vv. 92- 95). L’implacabilità di oujde; pauvsetai viene ripresa poco dopo (v. 109) dall’aggettivo duskatavpausto” , implacabile appunto, sempre riferito a Medea dalla nutrice che la conosce bene. Più avanti la nutrice ribadisce questa implacabilità dell’ira di Medea:”ouj e[stin o{pw” e[n tini mikrw/’-devspoina covlon katapauvsei” (vv.171-172), Non è possibile che la signora contenga l’ira in una piccola vendetta.
L’eroe non fa niente che non stimi degno della sua natura: Achille , cedere nescius [202], non si lascia fermare da niente e il Bruto Minore di Leopardi prima di suicidarsi proclama :” Guerra mortale, eterna, o fato indegno,/teco il prode guerreggia,/ di cedere inesperto”(vv. 38-40).
Achille e Medea non si peritano di mandare in rovina amici e nemici quando si tratta di salvare il proprio l’onore.
Quando Giasone in uno degli ultimi versi (1396) li invoca:” o figli carissimi” e Medea replica :”alla madre sì, a te no”, il padre domanda:”e poi li hai uccisi?”, l’infanticida risponde:”Per tormentare te” (v. 1398).
Si tratta, dicevo, di una difesa dell’identità a tutti i costi.
Medea come Achille, come Antigone non cede. E non giunge a quella rassegnazione alla quale secondo Schopenhauer la tragedia dovrebbe condurre. Secondo il filosofo del pessimismo “quasi tutti” i drammi greci :”mostrano il genere umano sotto l’orribile dominio del caso e dell’errore, ma senza la rassegnazione da ciò provocata e di ciò redentrice”. Per questo la tragedia antica non viene approvata:”Se quindi gli antichi rappresentano poco nei loro eroi tragici, come loro disposizione d’animo, lo spirito della rassegnazione, l’abnegazione della volontà alla vita; ciò nondimeno la vera tendenza e l’efficacia della tragedia restano sempre quelle di destare nello spettatore tale spirito e provocare in lui, se anche transitoriamente, quella disposizione d’animo”[203]. Nietzsche rifiuta questa interpretazione dopo essersi pentito “di avere oscurato e guastato con formule schopenhaueriane intuizioni dionisiache”[204]. Leggiamo quanto scrive nei Frammenti Postumi :”Schopenhauer sbaglia quando fa di certe opere d’arte uno strumento del pessimismo. La tragedia non insegna la “rassegnazione”. Il rappresentare le cose terribili e problematiche è esso stesso già un istinto di potenza e di magnificenza nell’artista: egli non le teme. Non c’è un’arte pessimistica. L’arte afferma”[205].
La Medea di Seneca riafferma la propria identità terribile quando alla fine del dramma chiede a Giasone:”Coniugem agnoscis tuam? ” (v. 1021), riconosci tua moglie? Giasone chiude la tragedia gridando alla donna di andare per gli alti spazi dell’etere sublime ad attestare che per dove passa non esistono gli dèi. “E’ l’antiapoteosi finale”[206].
Ma anche sulla terra il caso di Medea lascia una testimonianza indelebile: Ippolito nella Fedra ne fa il paradigma negativo che concentra in sé e rappresenta tutto il genere criminale delle donne:”Sed dux malorum femina: haec scelerum artifex Sileantur aliae: sola coniunx Aegei,/Medea, reddet feminas dirum genus” (vv. 559, 563-564), ma il primo dei mali è la donna: questa artista del criminesi taccia delle altre: la sola moglie di Egeo[207], Medea, renderà le femmine una razza funesta.
La donna barbara insomma è tornata a essere l’assassina che era già nel ruolo di moglie e complice del bel seduttore greco. Il suum esse del De brevitate vitae (“Ille illius cultor est, hic illius: suus nemo est “, 2, 4, , quello è dedito al culto di quello, questo di quello, nessuno appartiene a se stesso) è rivendicato da Medea in tutta la tragedia:” In questa rapina rerum omnium (Marc . 10, 4), che ingigantisce su scala cosmica l’instabilità della condizione politica, resta come unico punto fermo, come unico bene inalienabile il possesso della propria anima” afferma l’ottimo Traina[208]. Anche se è un’anima sconvolta aggiungo .
Più avanti il professore dell’ateneo bolognese aggiunge:”L’animo si arrocca in se stesso: fuori è il regno della fortuna, il vortice delle cose, turbo rerum (ep. 37, 5), hJ e[xwqen perirrevousa divnh, come dirà Marco Aurelio (12, 3, 3). E’ ellenistico questo senso chiuso, individualistico, direi esistenziale dell’interiorità”[209].
Io direi che è già euripideo. I delitti degli uomini fanno dubitare della presenza di dèi giusti già il “sacrilego” Euripide il quale aprì la strada ai “beffardi Luciani dell’antichità”[210] quanto il Seneca delle tragedie:” Fugere Superi ” (Thyestes, 1022), sono fuggiti (fugere=fugerunt ) gli dèi, afferma Tieste quando riconosce il fratello Atreo dal crimine efferato che ha commesso, e Giasone chiude la Medea gridando alla donna che si allontana:”Testare, nullos esse, qua veheris, deos ” (Medea, v. 1016), attesta per dove passerai che gli dei non esistono.
Data la concezione pedagogica del teatro di Seneca, tutti i suoi personaggi sono paradigmi e, al pari del loro autore, lasciano l’immagine della loro vita[211].
La Medea di Euripide alla fine trionfa poiché accetta del tutto quella sua diversità della quale in un primo tempo aveva solo preso coscienza:”h’j polla; polloi'” eijmi diavforo” brotw’n” (v. 579), davvero in molte cose io sono diversa da molti. Sembra che la donna barbara abbia infine attuato il precetto che costituisce “La somma di tutto il pensiero educativo di Pindaro”[212]:”gevnoio oi’Jo” ejssiv” (Pitica II v. 72), diventa quello che sei.
Un motto recentemente usato dalla pubblicità, in francese, poiché, come dice bene Bettini “anche i pubblicitari sono degli Aconzi”[213] il quale seppe farsi leggere e fu il primo capace di obbligare con la lettura. La pubblicità però vuole farci diventare tutti uguali, ossia tutti compratori degli stessi prodotti, mentre la tragedia antica ci aiuta a vedere fuori dall’orizzonte obbligato:” Il teatro greco era infatti un rito religioso in cui le esperienze fondamentali di ogni individuo venivano rappresentate in forma drammatica, e in cui proprio la forma drammatica aveva la forza di spezzare la routine. Chi era partecipe del dramma non era un consumatore né uno spettatore, ma partecipava a un rito che toccava nell’intimo le corde fondamentali della vita; è per questo che il dramma, come dicevano i Greci, produceva un effetto catartico. Il dramma purificava, toccava direttamente. Chi prendeva parte a una rappresentazione drammatica ritrovava il contatto con la parte più profonda dell’uomo e dell’umanità, e ritrovava così ogni volta la capacità di squarciare il velo della routine”[214].
Torniamo alla diversità di Medea, alla problematica diversità di ciascuno di noi e concludiamo:” Il vero problema nasce con le diversità che si pongono in irriducibile conflitto con il modello di umanità, un conflitto nel quale la soddisfazione dell’esigenza degli uni costituisce necessariamente violenza per gli altri e viceversa. Nel famoso film di Fritz Lang, M, l’assassino di bambine non mente, quando illustra tragicamente la sua reale esigenza che lo induce a quegli atti omicidi, e l’altissimo costo che significherebbe per lui la repressione di quegli impulsi, ma d’altra parte anche il diritto di quelle bambine di non essere uccise-ossia il loro diritto di esigere la sua repressione-non è meno reale. Pure il delitto di Raskol’ nikov nasce da una passione sofferta e reale; se egli ne venisse impedito, ciò significherebbe il sacrificio di una sua oscura ma autentica esigenza, e d’altronde senza quel sacrificio sono le sue vittime a venire calpestate. Si tratta di casi estremi, che indicano tuttavia la difficoltà di tracciare un confine fra l’esigenza dell’universale e la rivendicazione della diversità, e che indicano soprattutto la difficoltà di risolvere il problema sul mero terreno della prosa del mondo, sul piano puramente sociologico: per Dostoevskij soltanto la prospettiva di Sonia, della carità, può risolvere il dilemma di Raskol’nikov”[215].
L’eroismo di Medea sta nella realizzazione e rivendicazione della propria natura senza infingimenti. Analogamente nelle Ultime lettere di Iacopo Ortis leggiamo:” io mi reputo meno brutto degli altri e sdegno perciò di contraffarmi; anzi buono o reo ch’io mi sia, ho la generosità, o di’ pure la sfrontatezza, di presentarmi nudo, e quasi quasi come sono uscito dalle mani della Natura”[216].
[1] ” ejnnouvmeno” wJ” oujde;n ei[hn kakivwn tou’ th'” Pasuvfah” moicou'”, Luciano ? (120-190 d. C.), Lucio o l’asino , 51.
[2]Ovidio, Ars Amatoria , II, 23-24.
[3] D. Puliga, S. Panichi, In Grecia, p. 8.
[4] Il centauro Nesso.
[5]U. Albini, Interpretazioni teatrali , Le Monnier, Firenze, 1972, p. 59.
[6] A. Maddalena, Sofocle , Edizioni di “Filosofia”, Torino, 1959, p. 102.
[7] Sono lettere d’amore di donne amanti di eroi, e altre lettere di uomini a donne del mito con le risposte. Il primo gruppo ( epistole I-XV) uscì secondo alcuni attorno al 15 a. C. , fra la prima (20a. C.) e la seconda edizione degli Amores (1 a. C.). Altri abbassano la data fino al 5 a. C. Il secondo gruppo di epistole doppie ( XVI-XXI) fu composto poco prima dell’esilio (tra il 4 e l’8 d. C.). Il metro è il distico elegiaco.
[8] Come Cerbero, il cane di Ades, dal ringhio metallico.
[9] Crasi di kai; ejxamw’n.
[10] Cfr. Baccanti, vv.275-276:” Dhmhvthr qeav-gh’ d’& ejstivn, o[noma d& oJpovteron bouvlh/ kavlei”, la dea Demetra, è la terra, chiamala con il nome che vuoi, e le Fenicie, vv.685-686:”Damavtar qeav,-pavntwn a[nassa, pantwn de; Ga’ trofov””, la dea Demetra, signora di tutti, la Terra di tutti nutrice.
[11]Per tutto l’episodio cfr. De rerum natura, II, 600-660.
[12] Trad. it. , antologica, Il potere femminile, pp.76-77)
[13] Thomas Hardy, Tess , trad. it. Mondadori, Milano, 1989, p. 149.
[14] Cfr. nel mio Mu’qo” kai; lovgo” (p. 206) la scheda “La funzione femminile dell’accoglienza. A una splendidissima donna”. A proposito di fides: si tratta della stessa donna.
[15] Catullo, Carmina, 8, 5.
[16] Dante, Paradiso, XXXIII, 145.
118 G. Davico Bonino (a cura di) Lunario dei giorni d’amore .p. 137.
[18] The Spirit of Romance , Londra, 1910, p. 5.
[19] Dante, Inferno, XIV, 94.
[20] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov , pp. 401-402.
[21]G. Steiner, Le Antigoni , p. 254.
[22] M. Cacciari, L’arcipelago, p. 49.
[23] Vv. 13-14.
[24]G. B. Conte Gian Biagio Conte, Aristaeus, Orpheus, and the Georgics: Once Again , in Poets And Critics Read Vergil, Yale University Press.
[25] Ovidio, Metamorfosi, VI, 577.
[26] M. Bettini, La letteratura latina 2 , p. 690.
[27] M. Bettini, op. e p. citate sopra.
[28] Composte tra il 2 e l’8 d. C.
[29] Procne
[30] Città della Laconia nella quale in seguito a falsi annunci di attacchi nemici seguiti da turbamenti fu vietato di dare l’allarme, sicché quando gli aggressori arrivarono davvero la trovarono impreparata.
[31] E’ questo il ritornello che si trova già in apertura, si ripete dieci volte e indica la destinazione popolare del componimento.
[32] Il più crudele dei mesi, La terra desolata , 1.
[33] Vincenzo Di Benedetto, Introduzione a Trachinie, Filottete , Rizzoli, Milano, 1998, p. 25.
[34] Cfr. G. Biondi, Introduzione a Medea-Fedra di Seneca, p. 50.
[35] “Il primo attributo del traditore nelle parole di Arianna fa riferimento al suo essere venuto meno alle promesse basate sulla fides , un principio cardine del carme” (G. B. Conte, Scriptorium Classicum 2, p. 63).
[36] Il quale del resto piange per la ragione contraria: poiché la ninfa Calipso che non gli piaceva più (ejpei; oujkevti hJvndane nuvmfh, V, 153), ma ella lo tratteneva nell’isola di Ogigia.
[37] Principium et fons , p. 415.
[38] H. Hesse, Siddharta , pp. 117, 118, 119.
[39] =quibus .
[40] accusativo dell’oggetto interno equivalente a non .
[41] Perfetto gnomico.
[42] M. Fusillo, Lo spazio letterario della Grecia antica , I, 2, p.124.
[43] Heus! ubi pacta fides? (v. 43), Ahi, dov’è la fedeltà promessa?
[44] Tonio Kröger , p. 285. T. Mann cita la prima Lettera ai Corinzi (13,1) di Paolo.
[45] E. Fromm, Avere o essere? , p. 63.
[46] La vita.
[47] Il fuoco (del 1900), p. 95.
[48] Scriptorium Classicum 2, p. 81.
[49] Del 44 a. C.
[50] M. Meslin, L’uomo romano. Uno studio di antropologia , trad. it. Mondadori, Milano, 1981, p. 216.
[51] Lo spazio letterario di Roma antica, 1, p. 166, 167, 168.
[52] Properzio Elegie, p. 19.
[53] Il motivo di amore e morte in Properzio è stato trattato con finezza da A. La Penna, L’integrazione difficile. Un profilo di Properzio , Torino, 1977, pp. 41-43; 54-55; 157-166.
[54] Autore di epigrammi, vissuto fra il 130 e il 60 a. C.
[55] I, 1, 6, vivere senza alcun proposito sano, secondo la docenza di Amor improbus che gli insegnò perfino a odiare le ragazze caste:”donec me docuit castas odisse puellas ” (v. 5).
[56] P. Fedeli, Introduzione a Properzio, Elegie , pp. 19-2O.
[57] Gabriel Garcia Màrquez, L’amore dei tempi del colera , p. 58.
[58] G. B. Conte, Scriptorium Classicum 2, p. 89.
[59] Conte, Scriptorium Classicum 2, p. 89
[60] M. Bettini, La Letteratura Latina , 2, p. 70.
[61] Eneide , IV, 569-570.
[62] Un calendario in distici composto fra il tre e l’otto d. C. quando fu interrotto, dall’esilio, al sesto libro di dodici che dovevano essere. Dovevano illustrare gli antichi miti e costumi latini.
[63] Rime , CXXVI, 53-55
[64]F. Dostoevskij, L’idiota (del 1869), p. 96 e p. 101.
[65] La sonata a Kreutzer in Tolstoj Romanzi brevi, p. 323.
[66] Immagino di tipo morale
[67] L. Tolstoj, Resurrezione, p. 149.
[68] D. Merezkovskij, Tolstòj e Dostojevskij, p. 101.
[69] Il ritratto di Dorian Gray (del 1891) , in O. Wilde, Opere , p. 31.
[70] T. Mann, Nobiltà dello spirito, p. 838.
[71] Il mestiere di vivere, 31 agosto 1940.
[72] Questa alta valutazione del cuore e del sentimento si ritroverà, com’è noto, negli autori dello Sturm und drang e del romanticismo: Goethe ne I dolori del giovane Werther scrive(9 maggio 1772):”egli apprezza la mia intelligenza ed i miei talenti più del mio cuore, che è pure l’unica cosa della quale sono superbo, che è pure la fonte di tutto, di ogni forza, di ogni beatitudine e di ogni miseria. Ah, quello che io so, lo può sapere chiunque-ma il mio cuore lo possiedo io solo”.
[73] Le origini del pensiero greco , pp. 47-48.
[74] Un distico citato da Kierkegaard nel Diario del seduttore , quel Giovanni esteta che infatti è un uomo dal fascino mentale, un seduttore intellettuale come Faust, non sensuale come il Don Giovanni di Mozart.
[75] Si veda lo studio, rigoroso e fine, di R. P. Winninton-Ingram, Clytemnestra and the Vote of Athena , in “Journal of Hellenic Studies”, 1948, pp. 130-47.
[76] Ecco, a titolo di indicazione, alcuni passi dei tre tragici greci che hanno trattato lo stesso tema: Eschilo, Agamennone 1224, 1259, 1625 sgg., 1635, 1665, 1671; Coefore 304; Sofocle, Elettra 299-302; Euripide, Elettra 930 sgg.
[77] Eschilo, Agamennone 10-11, 258, 1251, 1258, 1377 sgg. , cfr. anche l’ironia di 483 e 592 sgg.; Coefore , 664 sgg.; Sofocle, Elettra 650 sgg. , 1243; Euripide, Elettra 930 sgg.
[78] J. P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci , p. 159.
[79] Sesso e carattere , p. 113.
[80] E. Morin, L’identità umana, p. 65.
[81] Dostoevskij nell’Idiota (1868-1869) definisce Nastasja Filippovna “quell’oltraggiata e fantastica donna” (p. 55). La nutrice della Medea di Euripide la chiama “hJ duvsteno” hjtimasmevnh” (v. 20), l’infelice oltraggiata.
[82] F. Dostoevskij, L’idiota, pp. 54-55.
[83] E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, p. 85.
[84] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , p. 178.
[85] J. Duflot, Pier Paolo Pasolini. Il sogno del centauro, Roma 1983, in Naldini, Pasolini, una vita , Einaudi, Torino 1989.
[86] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , p. 178.
[87] Nella scena 72.
[88] Ho fatto un’ampia scheda sul culto del sole nella mia Antigone (Loffredo, 2001, pp. 48-51).
[89] Scena 66.
[90] Medea, p. 116.
[91] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , pp. 178-179.
[92] Sofocle, Ant., 176. Cfr. 707 sg., ove yuchv è posta a contrasto con fronei’n, ed Euripide, Alc., 108.
[93]I Greci e l’irrazionale , p. 167.
[94] In questi giorni si inorridisce per i costumi delle donne afgane le quali vengono bombardate in nome della loro liberazione.
[95] Cfr. C. Pavese:”Sono un popolo nemico, le donne, come il popolo tedesco. Il mestiere di vivere , 9 settembre, 1946.
[96] Umano troppo umano , (vol.2, p.211)
[97] Esiodo, Opere e giorni :” la prima fa crescere la guerra funesta e la lotta”, v. 14).
[98] Opere e giorni :” questa suole risvegliare ugualmente al lavoro anche l’ozioso…buona è questa contesa per i mortali(ajgaqh; d& [Eri” hJvde brotoi’sin) e il vasaio gareggia con il vasaio, l’artigiano con l’artigiano, il mendico con il mendico e l’aedo con l’aedo (vv. 2O e sgg.)
[99] Certame Omerico, in Verità e menzogna e altri scritti giovanili , p. 117 e 120.
[100] La vittoria esige il canto che è un debito del poeta all’atleta (Olimpica III , 7) e alla stessa dike :”lodare il valente è fiore di giustizia”, leggiamo in Nemea III , 29. Dunque l’aretà che brilla nella vittoria non può rimanere “nascosta a terra in silenzio” (Nemea IX , 7).
[101] Tra mito e politica , pp. 177-178.
[102] Intorno alla concordia, fr. 49.
[103] Casa di bambola è del 1879.
[104] A. Giordano, Manuale per l’inegnamento del latino nella scuola del 2000 , p. 95.
[105] Per la fanciulla il termine significa “norma religiosa”; per Creonte, “editto promulgato dal capo dello Stato”
[106] J. P. Vernant, Ambiguità e rovesciamento in Mito e tragedia nell’antica Grecia , pp. 89-90.
[107] C. Magris in Euripide, Grillparzer, Alvaro, Medea Variazioni sul mito a cura di M. G. Ciani, p. 17.
[108] Bisogna poi che quella giunta tra nuovi costumi e leggi sia un’indovina, per trattare nel modo migliore il marito, se non lo ha appreso da casa.
[109] Franz Grillparzer, op. cit., p. 81.
[110] J. Kott, Mangiare Dio , trad. it. Edizioni Il Formichiere, Milano, 1977, p. 120.
[111] Le sorelle Rondoli , in Racconti d’amore, p. 256.
[112] J. Joyce, Ulisse, p. 139.
[113] G. M. Bowra, La lirica greca da Alcmane a Simonide , p. 383.
[114] Privietra-Pretagostini, Storia della letteratura greca, p. 144.
[115] M. Cacciari, L’arcipelago, pp. 57-58.
[116] Eschilo, Agamennone , vv. 434-437).
[117] Storia dei Greci , II vol., p.91
[118] “I am Antony yet “, Antonio e Cleopatra (del 1606-1607) , III, 13.
[119] Da La duchessa di Amalfi (del 1614) , di J. Webster (1580-16259, autore del teatro elisabettiano. Non ne possiedo il testo che non ho mai letto.
[120] Shakespeare e lo stoicismo di Seneca, in T. S. Eliot Opere , trad. it. Bompiani, Milano, 1986.
[121] C. Wolf, Medea , p. 183.
[122] G. G. Biondi, Introduzione a Medea Fedra , Rizzoli, Milano, 1998, p. 58.
[123] C. Wolf, Medea, p. 20.
[124] Op. cit., p. 88. Parla Agameda della Colchide, un’ex allieva di Medea arrivata a odiarla. Acamante è l’astronomo del re di Corinto Creonte. Presbo è un altro Colco divenuto organizzatore dei giochi di Corinto. Sono entrambi amanti di Agameda.
[125] Op. cit., p. 91, n. 1.
[126] Proserpina che, pur rapita dal re delle tenebre, Plutone, ha ricevuto un trattamento migliore di Medea da Giasone. Come dire che l’inferno peggiore è questo qui sulla terra. Si noti come nei pochi versi citati la parola fides compaia due volte.
[127] A. C. Bradley, La tragedia di Shakespeare, p.369.
[128] A. C. Bradley, La tragedia di Shakespeare, p. 403.
[129] A. C. Bradley, La tragedia di Shakespeare, p. 370.
[130] I. Svevo, Senilità (1898), p. 19.
[131] M. Fusillo, Lo spazio letterario della Grecia antica , I, 2, p. 123.
[132] Il sogno e la sua interpretazione , p. 35.
[133] Medea convinse le figlie di Pelia, tranne Alcesti, a uccidere il padre, farlo a pezzi e mettere questi a bollire in una caldaia dicendo loro che attraverso tale trattamento il vecchio re di Iolco sarebbe ringiovanito.
[134] Del 1605-1606
[135] Participio passato di exs?co
[136] Bradley, op. cit., p. 418.
[137] Cfr. C. Pavese:”E qualcuno ora è vecchio-e ti parla- che vide i suoi figli sacrificati dalla madre furente”. Dialoghi con Leucò, Gli Argonauti .
[138] Il vello d’oro naturalmente.
[139] A. C. Bradley, La tragedia di Shakespeare, p. 419.
[140] Si affrettano alla conclusione; cfr: Orazio, Ars poetica, v. 148.
[141] C. Chiarini, op. cit., p.LIX.
[142] G. Baldi, S. Giusso, M. Razzetti, G. Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo , 1, paravia , Torino, 1994, p. 497.
[143] Il carrozzino che porta Boylan all’appuntamento erotico con Molly, la Penelope di questo Ulisse.
[144] J. Joyce, Ulisse , p. 372. Cfr. non procellosum mare di Seneca, Medea, 411.
[145] Sesso e carattere , pp. 112, 113, 115..
[146] Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 88.
[147] Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , p. 174.
[148] Medea, p. 117.
[149] Ultime lettere di Iacopo Ortis , 28 ottobre 1797.
[150] Ultime lettere di Iacopo Ortis , 15 maggio, 1798.
[151] Madame Bovary, p. 30.
[152] La nascita della tragedia , p. 85.
[153] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , p. 30 e sgg.
[154] M. Pohlenz, L’uomo greco, p. 624.
[155] V. Di Benedetto, introd. a Euripide, Medea , Milano, 1977, p. 19.
[156] Il mestiere di vivere , 14 ottobre 1940.
[157] Svevo, Una Vita , p. 239.
[158] Musil, L’uomo senza qualità , p. 210.
[159] Moravia, La Noia , p. 19.
[160] M. Cacciari, L’arcipelago, p. 56.
[161] M. Cacciari, L’arcipelago, p.61.
[162] D. Del Corno, Medea, una tragedia in assenza degli dei . “Il sole 24 Ore”, 7 settembre 1977.
[163] Il mestiere di vivere , 26 settembre 1942.
[164] Umano, troppo umano , II vol., p.156.
[165] I. Calvino, Lezioni americane , Mondadori, Milano, 1993, p. 10.
[166] Metamorfosi , VI, 621-622. Nella XII Epistula delle Heroides Medea aveva scritto a Giasone a proposito dei loro figli che ucciderà:”Et nimium similes tibi sunt et imagine tangor ” (v. 191) e ti assomigliano troppo e sono colpita dalla somiglianza.
[167] J. W. Goethe, Faust, seconda parte, atto I, Galleria oscura.
[168] Ulisse , p. 284.
[169] G. Cipriani, Storia della letteratura latina 2, p. 58.
[170] Tacito, Annales , I, 10.
[171] M. Cacciari, L’arcipelago, p. 53.
[172] Iliade, XXII, 105, e VI, 442, mi vergogno davanti ai Troiani.
[173] I greci e l’irrazionale , p. 30.
[174] H. Ibsen, Un nemico del popolo , atto quarto. Trad. it. Garzanti, Milano, 1976.
[175] R. Musil, L’uomo senza qualità , p. 846.
[176] D. Lanza, op. cit., p. 43.
[177] C. M. Bowra, Mito E Modernità Della Letteratura Greca , p. 170.
[178] K. R. Popper, J. Condry, Cattiva maestra televisione , p. 10.
[179] A. C. Bradley, A. C. Bradley, La tragedia di Shakespeare, p. 425.
[180] Introduzione alla metafisica , p. 168.
[181] Augusto, sofferente per il comportamento scandaloso delle due Giulie, figlia e nipote, che fece relegare a Ventotene poiché si erano contaminate di ogni vergogna sessuale (“omnibus probris contaminatas ” in Svetonio, Vita di Augusto , 65), e scontento anche del nipote Agrippa dall’indole torbida e selvaggia soleva esclamare sospirando, in greco: “fossi rimasto celibe (a[gamo”) e morto senza figli! (a[gono”)!”.
[182] Medea, p. 157.
[183] E’ Medea, vittima di un complotto di stato e diventata innominabile.
[184] Medea , p. 148.
[185] M. Cacciari, L’arcipelago, p. 53.
[186] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico I, pp. 178 e 179.
[187] Strabone (64 ca a. C.-24 ca d. C.), Geografia, X, 3, 9.
[188] E. Morin, op. cit., p. 64.
[189] Autore dell’età di Tiberio al cui regime diede sostegno. Il suo Factorum et dictorum memorabilium , una raccolta di exempla in nove libri, uscì intorno al 31 d. C.
[190] Per cui cfr. il mio Storiografi Greci , pp. 88-89.
[191] la Repubblica del 12 ottobre 2001, prima pagina.
[192] La piccola torre di Babele , 1563.
[193] U. Galimberti, la Repubblica, 20 aprile 2002, p. 1.
[194] Gli abitanti di Corinto, fondata da Sisifo con il nome di Efira. Questo figlio di Eolo era famoso per i suoi inganni.
[195] Madame Bovary , p.40.
[196] B. Knox, The Medea of Euripide , in “Yale Classical Studies”, 28, 1977, trad. it. in Medea , a c. di L. Correale, Milano, 1995.
[197] Iliade , IX, 319
[198] Iliade , I, 505
[199] Iliade , I, 507
[200] Dante, Inferno, XVIII, 89.
[201] Per cui cfr. l’elogio degli amori ancillari di Gozzano
[202] Orazio, Odi , I, 6, 5- 6:” gravem /Pelidae stomachum cedere nescii “, la funesta ira di Achille incapace di cedere.
[203] A. Schopenhauer, Supplementi al libro III del Mondo come volontà e rappresentazione , pp. 113-114.
[204] Tentativo di autocritica (, del 1886, alla Nascita della tragedia ), p. 12.
[205] Scelta di frammenti postumi, primavera 1888-14, p. 229.
[206] G. G. Biondi, op. cit., p. 165.
[207] Che sposerà Medea dopo Giasone.
[208] Lo stile “drammatico” del filosofo Seneca , Patron Edizioni, Bologna, 1974, p. 13.
[209] A. Traina, op. cit., p. 2O.
[210] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cap. 10.
[211] Imaginem vitae suae relinquere testatur , dichiara per testamento che lascia l’immagine della sua vita. E’ Seneca prima di morire negli Annales di Tacito ( XV, 62).
[212] Jaeger, Paideia , I vol., p.391.
[213] M. Bettini, Con i libri , p. 9.
[214] E. Fromm, I cosiddetti sani . La patologia della normalità dell’uomo contemporaneo , pp. 26-27.
[215] C. Magris, L’anello di Clarisse , p. 27.
[216] 11 dicembre 1797.
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