Questo non è il racconto del lager, è la continuazione di Se questo è un uomo” e prende l’avvio proprio dall’arrivo dei Russi al campo. Eppure la presenza del lager pervade tutto il testo, implicita, inquietante, soprattutto incancellabile, perché quello che ha lasciato nel cuore non può essere dimenticato. Sotto questo punto di vista è una denuncia ancora più netta e chiara della disumanità del lager.
La metafora del viaggio
La metafora ricorrente nel libro è quella del viaggio, un viaggio circolare, dal moto apparente, in cui si procede non da un punto A a un punto B, ma da A si ritorna ad A:
in senso fisico, concreto, poiché dopo mesi di viaggio quasi Primo ritorna nella Polonia dalla quale era partito. Inoltre c’è un tratto di strada, da ?merinka a Staryje Doroghi, che Primo percorre prima in direzione sud-nord (a luglio) e poi da nord a sud (a settembre)
in senso spirituale, perché dal lager parte, e al lager Levi ritorna sempre con il pensiero, fino alla fine
Avventura picaresca
Il viaggio di Primo si configura anche come un vagabondaggio alla ricerca del pane. Il lager aveva imposto la sua legge: primum vivere. In base a questa legge l’imperativo categorico era quello di procurarsi da mangiare, in un modo o nell’altro.
Il lager, il bisogno, la fame, stravolgono le gerarchie dei valori, per cui non solo per Cesare, ma anche per Primo, che osserva con un sorriso il suo amico, rubare è lecito, e donare un pesce ad una famiglia che ne ha bisogno è una cosa di cui vergognarsi.
Memoriale
Come Se questo è un uomo”, anche La tregua” è anzitutto ricordo di un’esperienza vissuta, Per Levi la memoria ha un valore, come rievocazione e testimonianza per i posteri. Del resto proprio grazie a testimonianze come quella di Levi venne istituita la Giornata della memoria:
La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945″ (pag. 2)
Il tempo dilatato
Se gli spazi sono circolari, i tempi nel romanzo sono soggetti a distorsione, dilatati allinverosimile, come scrive lo stesso autore a pag. 189, parlando di come fosse opinabile” il concetto del domani quando per esempio i russi promettevano di far partire gli italiani finalmente da Staryje Doroghi:
il termine russo corrispondente, per uno di quegli slittamenti semantici che non sono mai senza perché, viene a dire qualcosa di assai meno definito e perentorio del nostro «domani», e, in armonia con le abitudini russe, vale piuttosto «un giorno fra i prossimi», «una volta o l’altra», «in un tempo non lontano»: insomma, il rigore della determinazione temporale vi è dolcemente sfumato”
Larco di tempo
Larco di tempo all’interno del quale si svolgono gli avvenimenti è di circa 9 mesi, dal 17 gennaio del 1945 (giorno in cui i tedeschi abbandonano Auschwitz) al 19 ottobre dello stesso anno, quando Primo ricompare inaspettatamente a casa sua.
Lo stile
E’ quello già conosciuto di Primo Levi: l’alternarsi di racconti e riflessioni, anzi il continuo emergere del giudizio, che non è mai pedante, perché segno di una tensione etica sempre viva. Per questo Levi si sofferma ad osservare il comportamento degli uomini.
Da notare anche la concretezza, l’immediatezza, che è dovuta anche al primo” mestiere, di chimico, dello scrittore, come dice lui stesso nella prefazione al libro:
il mio mestiere quotidiano mi ha insegnato (e continua ad insegnarmi) molte cose di cui ogni scrittore ha bisogno. Mi ha educato alla concretezza e alla precisione, all’abitudine di “pesare” ogni parola con lo scrupolo di chi esegue un’analisi quantitativa; soprattutto, mi ha abituato a quello stato d’animo che suole chiamarsi obiettività: vale a dire, al riconoscimento della dignità intrinseca non solo delle persone, ma anche delle cose, alla loro verità, che occorre riconoscere e non distorcere, se non si vuole cadere nel generico, nel vuoto e nel falso.” (dalla Prefazione a La tregua” di Primo Levi)
Per questo Levi predilige le frasi brevi, ed usa frequentemente la punteggiatura, il che, come è noto, rende più chiaro il discorso e logici i passaggi del testo.
Anche Calvino si porrà in questa strada (vedi la Lezione americana sull’esattezza) e non a caso anche Calvino ricercherà il segreto di questo stile nella scienza.
La lingua
Sono presenti tutte le lingue d’Europa, nonché lyiddish, e il latino in reminiscenze scolastiche come His fretus”, vale a dire su questi bei fondamenti” (pag. 136). In questo modo Levi rappresenta la babele dei deportati, ma nello tempo rivela il sogno dell’uomo di comunicare con l’altro simile (altra condizione essenziale per essere veramente uomo, anche se certe volte alla precisione” della parola supplisce lespressività popolare, come nel caso del gergo romanesco di Cesare).
Il film
Da questo libro è stato tratto un film del 1997, diretto da Francesco Rosi.
Molte delle immagini che compaiono in queste slide sono tratte da esso.
Poesia introduttiva
Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Il comando dell’alba:
“Wstawa?”;*
E si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre è sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
E’ tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
“Wstawa?”.
* (alzarsi” in polacco)
Il disgelo
lora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva:
e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni delloffesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti.
Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile delloffesa, che dilaga come un contagio. E’ stolto pensare che la giustizia umana la estingua.
Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia” pagg. 5-6
Il campo grande
A Buna non si sapeva molto del «Campo Grande», di Auschwitz propriamente detto: gli Häftlinge (internati, detenuti) trasferiti da campo a campo erano pochi, non loquaci (nessuno Häftling lo era), né facilmente creduti.
Quando il carro di Yankel varcò la soglia famosa, rimanemmo sbalorditi. Buna-Monowitz, coi suoi dodicimila abitanti, era un villaggio al confronto: quella in cui entravamo era una sterminata metropoli.” (pag. 9-10)
Yankel era uno Häftling: era un giovane ebreo russo, forse l’unico russo fra i superstiti, ed in quanto tale si era trovato naturalmente a rivestire la funzione di interprete e di ufficiale di collegamento coi comandi sovietici” (pag. 7-8)
Hurbinek: il bambino di tre anni senza nome
Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito;” (pag. 15)
Era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi;” (pag. 13-14)
Hurbinek, il senza-nome, il cui nome era stato assegnato forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva.” (pag. 13)
il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole. (pag. 15)
Ad Auschwitz Levi incontra anche ex-Kapò, condizionati anche se liberi dall’esperienza che avevano vissuta, tanto da volerla perpetuare come il Kleine Kiepura che vociferava in tedesco imperiosi comandi ad uno stuolo di schiavi inesistenti. […] linfezione del Lager aveva fatto in lui troppa strada.” (pag. 19)
Il greco
Mordo Nahum […] La biografia del mio greco era lineare: quella di un uomo forte e freddo, solitario e laico, che si era mosso fin dall’infanzia per entro le maglie rigide di una società mercantile. Era (o era stato) accessibile anche ad altre istanze: non era indifferente al cielo e al mare del suo paese, ai piaceri della casa e della famiglia, agli incontri dialettici; ma era stato condizionato a ricacciare tutto questo ai margini della sua giornata e della sua vita, affinché non turbasse quello che lui chiamava il «travail dhomme». La sua vita era stata di guerra, e considerava vile e cieco chi rifiutasse questo suo universo di ferro. Era venuto il Lager per entrambi: io lo avevo percepito come un mostruoso stravolgimento, una anomalia laida della mia storia e della storia del mondo; lui, come una triste conferma di cose notorie. «Guerra è sempre
Il greco cioè trova conferma nell’esperienza del lager di una sua convinzione, condensata nella frase l’uomo è lupo all’uomo”, mentre Primo Levi era convinto della bontà dell’uomo, e quindi l’esperienza di quell’anno nel lager gli stravolse completamente l’esistenza.
Katowice
Una volta spostatosi su comando dei russi da Auschwitz a Katowice, Primo Levi nota sconsolato
a che serviva essere stati liberati, se poi passavamo ancora i nostri giorni in una cornice di filo spinato?” (pag. 64-65)
Leonardo
Nel campo di Bogucice [distretto periferico di Katowice] trovai Leonardo, già accreditato come medico, e assediato da una clientela poco redditizia ma molto numerosa: veniva come me da Buna, ed era arrivato a Katowice già da qualche settimana, seguendo vie meno intricate delle mie”. (pag.55)
Possedeva oltre alla fortuna [era sopravvissuto miracolosamente al lager, malgrado soffrisse freddo e fatica] un’altra virtù essenziale in quei luoghi: una illimitata capacità di sopportazione, un coraggio silenzioso, non nativo, non religioso, non trascendente, ma deliberato e voluto ora per ora, una pazienza virile, che lo sosteneva miracolosamente al limite del collasso.” (pag. 56)
Da adesso in poi Leonardo sarà un altro compagno inseparabile di Primo, e Primo condividerà con lui il supporto medico” degli altri compagni.
Cesare
Credo di non avere mai letto nulla di così sconvolgente come l’inizio di questo capitolo. Con un flashback il narratore ritorna al tempo di inizio di questo romanzo, cioè i dieci giorni intercorsi fra la partenza dei tedeschi (con il grosso dei prigionieri) e l’arrivo dei russi.
In quei dieci giorni, nell’infermeria, le brande degli infettivi gravi (come Levi, ammalato di scarlattina) confinavano con la sezione degli ammalati di TBC e di dissenteria. Sentendo provenire da quest’ultima parte dei lamenti in lingua italiana, Levi entra in quella sezione, e vi trova un suo amico di Venezia, che sta morendo di freddo, e Cesare, che poi diverrà suo grande compagno nel viaggio di ritorno in Italia. La scena è ripugnante, perché gli ammalati di dissenteria, non solo non ricevono cure, ma lasciano i loro escrementi anche sul pavimento.
Sta di fatto che Cesare riesce a superare questa tremenda esperienza, poi viene reclutato dai Russi per costruire una trincea per paura di una reazione militare tedesca.
Qui iniziano ad emergere alcune caratteristiche dei russi, che sono, lo vedremo, meno organizzati e precisi dei tedeschi, ma proprio per questo è preferibile il loro bonario disordine alla disumana disciplina del lager, anzi la loro selezione per lavorare” è una sorta di parodia della selezione interna al campo di Auschwitz.
Infine si trova una donna in Polonia (come molti italiani), che poi però lo lascia per un soldato russo. Da allora in avanti Cesare diventerà un grande compagno di viaggio di Primo, e spesso lo distoglierà dalle sue malinconie, con la sua voglia di vivere, e di procurarsi cibo e altro, non sempre in modo legale e irreprensibile.
Victory Day
La notizia della vittoria della guerra giunge a Levi mentre si trova in Polonia, intuita dai titoli dei giornali, percepita nella gioia della gente della città e soprattutto dei russi, che inscenarono uno spettacolo per festeggiare. Un’altra dimostrazione della differenza fra i tedeschi e i russi sta nel fatto che anche gli ufficiali russi partecipano allo spettacolo, cosa che un ufficiale tedesco non avrebbe mai fatto.
Adesso non ci sono più fronti di guerra, quindi nulla dovrebbe impedire a Primo e ai suoi compagni di raggiungere il proprio paese, ma purtroppo non è così.
I sognatori
I sognatori sono gli illusi che credono a questo punto che sia imminente il proprio rientro in patria (non sarà affatto così e passeranno molti mesi).
Linganno di Cravero
Nel campo di Katowice ci sono anche degli ex-detenuti provenienti da San Vittore. Fra questi, Cravero, un furfante compiuto, incontaminato, senza sfumature” (pag. 99)
Egli decide di tornare in Italia clandestinamente, fidando sui suoi mezzi, avvezzo com’era a vivere al di fuori di ogni legge”. (pag.100). Dal momento che si dirige a Torino, Primo gli chiede di recapitare una lettera ai suoi, che sarà effettivamente l’unica comunicazione dello scrittore alla sua famiglia. Però Cravero cerca di estorcere dei soldi che avrebbe portato a Primo, che ne aveva bisogno, e, non essendoci riuscito, ruba impunemente la bicicletta della sorella di Primo Levi, ma poi ritornerà nuovamente a girare le carceri italiane.
La pleurite e il dottor Gottlieb
Nel periodo di maggio-giugno Levi si ammala di pleurite, ed è guarito solo dal dottor Gottlieb, che parlava perfettamente l’italiano (e non solo questa lingua) e correva spesso in specie in aiuto nostro, di noi sfuggiti come lui alla trappola mortale del Lager” (pagg. 94-95).
Gottlieb sarà anche il responsabile del convoglio degli italiani fino a ?merinka, poi però nessuno più lo vide, e gli italiani persero un importante punto di riferimento.
Verso sud
E’ il capitolo appunto del viaggio in treno verso Odessa, che si interrompe però anzitempo, a ?merinka, dove si notano già i segni dell’inizio della guerra fredda. I russi hanno combattuto a fianco degli occidentali contro il nemico comune, ma ora iniziano a concepire sogni di espansione ad ovest:
un imbianchino: eresse una impalcatura lungo la facciata della stazione, e fece sparire sotto uno strato di intonaco la scritta «Proletari di tutto il mondo, unitevi!»; in luogo della quale, con un sottile senso di gelo, lettera dopo lettera ne vedemmo nascere un’altra ben diversa: «Vperëd na Zapàd», «Avanti verso l’Occidente». (pag. 121-122)
Verso nord
Non a caso questi due capitoli vengono l’uno dopo l’altro, a significare lillogicità del percorso.
Nella cartina si può vedere come il viaggio di ritorno abbia seguito un percorso anomalo. E così gli italiani si trovano ad attraversare la Russia prima da nord a sud, e poi da sud a nord, spesso ripercorrendo gli stessi luoghi.
Una curizetta
Gli italiani sono trasferiti nel campo di raccolta di Sluzk, in cui Primo ritrova fortunosamente il greco Mordo Nahum.
Curizetta” è il termine locale per dire gallina”. Cesare e Primo riescono, non senza difficoltà, ad ottenerla dalla gente del posto, barattandola con alcuni piatti nel corso di uno dei viaggi di trasferimento. E’ qui che gli italiani vengono a sapere che dovranno recarsi a piedi a Staryje Doroghi, a settanta chilometri di distanza. La modalità del trasferimento è l’ennesima dimostrazione della disorganizzazione russa:
Un mattino, con velocità misteriosa e fulminea, si propagò fra noi la notizia che avremmo dovuto lasciare Sluzk, a piedi, per essere sistemati a Staryje Doroghi, a settanta chilometri di distanza, in un campo di soli italiani.
I tedeschi, in analoghe circostanze, avrebbero cosparso i muri di manifesti bilingui, nitidamente stampati, con specificata lora della partenza, l’equipaggiamento prescritto, la tabella di marcia, e la pena di morte per i renitenti.
I russi invece lasciarono che l’ordinanza si propagasse da sé, e che la marcia di trasferimento si organizzasse da sé.”(pag. 130
Vecchie strade
Il viaggio che conduce gli italiani da Sluzk a Staryje Doroghi è un incubo, proprio perché quelle vecchie strade parevano interminabili, quasi dei labirinti che sembravano ricondurre al punto di partenza (il viaggio non conduce alla meta in questo libro, l’abbiamo già visto).
In nessuna altra parte d’Europa, credo, può accadere di camminare per dieci ore, e di trovarsi sempre allo stesso posto, come in un incubo” (pag. 131)
Nel corso del viaggio Cesare si ingegna a vendere pesci ai russi, frodandoli, ma un giorno si intenerisce vedendo una donna poverissima, e regala il pesce, che doveva vendere, a lei e ai suoi figli. Poi si vergogna di quello che ha fatto, perché rischia di perdere la sua reputazione commerciale (ribaltamento dei valori morali).
Il bosco e la via
Rimanemmo a Staryje Doroghi, in quella Casa Rossa piena di misteri e di trabocchetti come un castello di fate, per due lunghi mesi: dal 15 luglio al 15 settembre del 1945.
Furono mesi d’ozio e di relativo benessere, e perciò pieni di nostalgia penetrante.” (pag. 150)
In questi mesi gli italiani frequentano due tedesche ex-ausiliarie della Wehrmacht, che si nascondono nel bosco e vivono di prostituzione e di espedienti. Alcuni degli italiani sono talmente attratti dal bosco (e da chi vi abita) che preferiscono vivere lì piuttosto che nella casa rossa, come il Vell’etrano originario delle vie sovraffollate di Trastevere, si era ritrasformato in uomo selvaggio con mirabile facilità. […]
Non pernottava quasi mai alla Casa Rossa: viveva nella foresta, scalzo e seminudo. Viveva come i nostri lontani progenitori: tendeva trappole alle lepri e alle volpi, si arrampicava sugli alberi per nidi, abbatteva le tortore a sassate, e non disdegnava i pollai dei casolari più lontani; raccoglieva funghi, e bacche tenute generalmente per incommestibili, e a sera non era raro incontrarlo nelle vicinanze del campo, accovacciato sui talloni davanti a un gran fuoco, su cui, cantando rozzamente, arrostiva la preda della giornata. Dormiva poi sulla nuda terra, coricato accanto alle braci.” (pag. 153-154)
I giorni di Staryje Doroghi passavano così, in una interminabile indolenza, sonnolenta e benefica come una lunga vacanza, rotta solo a intervalli dal pensiero doloroso della casa lontana, e dall’incanto della natura ritrovata.” (pag. 159)
Insomma, la casa rossa e il bosco rappresentano un momento di pace e di libertà, in questo sono lantilager, cioè luoghi in cui non vige la ferrea disciplina tedesca, ma le forze vitali e istintive possono esprimersi senza i limiti imposti dalla società, anzi in una sorta di Antisocietà, di Antilager, anarchico, preistorico, come nel caso del Vell’etrano.
Teatro
A Staryje Doroghi c’è un gruppo di italiani provenienti dalla Romania, che si erano aggregati solo in un secondo tempo, e che inizialmente erano più facoltosi e ricchi degli ex-prigionieri come Primo Levi.
Così, oltre al cinematografo, portato dai russi, gli italiani rumeni” nellagosto del 1945 organizzano uno spettacolo, la rivista” Il naufragio degli abulici” per prendere in giro i russi che bloccano lì gli italiani abulici”. E’ evidente anche l’autoironia, perché gli italiani riconoscono di non fare niente pigramente per cambiare la situazione.
Perfino nel divertimento, però, Levi intravede una nota di amarezza, retaggio della condizione di prigioniero:
Il numero del «Cappello a tre punte» toglieva il respiro, e veniva accolto ogni sera con un silenzio più eloquente degli applausi. Perché?
Forse perché vi si percepiva, sotto l’apparato grottesco, il fiato pesante di un sogno collettivo, del sogno che vapora dall’esilio e dallozio, quando cessano il lavoro e la pena, e nulla pone riparo fra l’uomo e se stesso; forse perché vi si ravvisava l’impotenza e la nullità della nostra vita e della vita, e il profilo gobbo e sghembo dei mostri generati dal sonno della ragione.” Pag. 182
Da Staryje Doroghi a Iasi
Iasi è una stazione di frontiera fra Russia e Romania. Il viaggio, iniziato non il 15 come previsto, ma il giorno dopo, prosegue sempre con molti intoppi. Prima di arrivare lì, comunque, il treno ci mise delle settimane, perché la partenza fu rimandata, e poi perché era malridotto.
Da Iasi alla linea
La linea è quella che demarca la zona di influenza russa da quella di influenza americana, e passa in Austria, nei pressi di St. Valentin, a pochi chilometri da Linz. Il viaggio è molto tormentato. La gente ha sete e per procurare un po d’acqua Levi rischia letteralmente di perdere il treno (e quindi di prolungare almeno di un mese la sua lontananza da casa) e gli italiani anzitutto sono bloccati per una settimana a Curtici (frontiera tra Romania e Ungheria) dove saccheggiano il villaggio soprattutto gli ultimi giorni, quando non hanno più nulla da mangiare. E’ il momento in cui Cesare decide di lasciare la compagnia, torna indietro a Bucarest, per raggiungere l’Italia in aereo. Lo farà, anche se arriverà qualche mese dopo (caso di prolessi presente nel testo). Lassenza di Cesare si farà sentire: soprattutto la percepirà Primo Levi.
Anche in Austria le cose non andarono benissimo, e i nostri rischiano di tornare al punto di partenza:
Speravamo di passare dall’Ungheria all’Austria senza complicazioni di confine, ma non fu così: il mattino del 7 ottobre, ventiduesimo giorno di tradotta, eravamo a Bratislava, in Slovacchia, in vista dei Beschidi, degli stessi monti che sbarravano il lugubre orizzonte di Auschwitz. Altra lingua, altra moneta, altra via: avremmo chiuso l’anello? Katowice era a duecento chilometri: avremmo ricominciato un altro vano, estenuante circuito per l’Europa?” (pag. 210-211)
L’Austria è terra di tedeschi, anche se non è propriamente Germania, ma i nostri non provano soddisfazione a vedere prostrati i nemici:
Non avevamo provato alcuna gioia nel vedere Vienna sfatta e i tedeschi piegati: anzi, pena; non compassione, ma una pena più ampia, che si confondeva con la nostra stessa miseria, con la sensazione greve, incombente, di un male irreparabile e definitivo, presente ovunque, annidato come una cancrena nei visceri dell’Europa e del mondo, seme di danno futuro” (pag. 212-213)
Il risveglio
Quando passano la linea di demarcazione fra russi e americani, gli italiani sono tenuti a fare un bagno”, parodia delle docce di Auschwitz, perché mentre il bagno dei tedeschi era segno di inciviltà, perché spesso così ammazzano i prigionieri, il bagno degli americani era segno di civiltà, perché disinfettano con il DDT, e conoscono e diffondono l’uso della penicillina.
Il treno passa poi direttamente dalla Germania, in particolare da Monaco. Questo passaggio non lascia indifferente gli italiani:
Ci sembrava di avere qualcosa da dire, enormi cose da dire, ad ogni singolo tedesco, e che ogni tedesco avesse da dirne a noi: sentivamo l’urgenza di tirare le somme, di domandare, spiegare e commentare, come i giocatori di scacchi al termine della partita.
Sapevano, «loro», di Auschwitz, della strage silenziosa e quotidiana, a un passo dalle loro porte? Se sì, come potevano andare per via, tornare a casa e guardare i loro figli, varcare le soglie di una chiesa? Se no, dovevano, dovevano sacramente, udire, imparare da noi, da me, tutto e subito:” (pag. 215)
L’angoscia di Levi può riguardare non solo i tedeschi di allora, ma tutti noi: il rischio, nostro, come loro, è quello di dimenticare.
Verso l’Italia
I mesi or ora trascorsi, pur duri, di vagabondaggio ai margini della civiltà, ci apparivano adesso come una tregua, una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale ma irripetibile del destino”In queste parole è condensato il significato del titolo. Ricompare anche in altri passaggi del testo questo termine fondamentale, perché in fondo l’esperienza del lager ha reso non più eludibile l’angoscia della morte, di fronte alla quale è possibile solo godere di effimeri momenti di tregua.
Il rientro a casa
Il rientro a casa non porta quella soddisfazione che ci aspetteremmo. Se in alcuni momenti il ritorno a casa sembra il traguardo da raggiungere, una volta arrivato a Torino, non a caso, Primo Levi non dice niente della sua famiglia, se non che hanno fatto fatica a riconoscerlo, conciato com’era dopo 20 mesi di lontananza.
Certo non tutto è negativo: infatti Ritrovai gli amici pieni di vita, il calore della mensa sicura, la concretezza del lavoro quotidiano, la gioia liberatrice del raccontare.” Pag. 218
Il sogno
Ma questo libro non ha un lieto fine, perché certe cose non si possono dimenticare.
Infatti Primo fa spesso un sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe.
E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l’angoscia si fa più intensa e più precisa.
Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero allinfuori del Lager.
Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. E’ il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera [polacca], temuta e attesa: alzarsi, «Wstawaç».
Leggendo questa amara conclusione si può capire ancora meglio il motivo per il quale Primo Levi si sia tolto la vita nel 1987.
Struttura ciclica
Il libro inizia citando nella poesia introduttiva la parola «Wstawaç» e si chiude con la stessa parola. In questo ritroviamo la concezione ciclica della vita (e del tempo, abbiamo visto): dal lager inizia la consapevolezza di Levi, nel lager finisce (con il suicidio che ne è diretta conseguenza). Anche la storia, la trama di questo romanzo inizia e termina con l’incubo della sveglia nel lager.