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27 Gennaio 2019La civiltà romana
Alcune fonti documentano che nei primi secoli successivi alla fondazione della città di Roma (753 a.C.) la religione locale onorava una figura femminile, presente in numerosi culti e conosciuta con diversi nomi: Mater Matuta, Feronia, Bona Dea, Fortuna e infine Tanaquilla.
Sulle condizioni di vita delle donne etrusche abbiamo numerosi racconti e descrizioni ad opera del greco Teopompo, che ne sottolinea la grande libertà: curavano il loro corpo, partecipavano ai banchetti insieme agli uomini, bevevano vino, e soprattutto allevavano i figli senza preoccuparsi di sapere chi ne fosse il padre.
Le donne etrusche godevano di una notevole libertà di movimento e di un certo prestigio: non più analfabete ma, anzi, colte, vivevano così con grande dignità e libertà un ruolo che però era sempre esercitato a livello familiare.
Anche i severi censori romani erano sgomenti davanti al fatto che le mogli degli aristocratici etruschi partecipassero tranquillamente ai banchetti standosene sdraiate sui letti del triclinio accanto ai loro mariti, spesso acconciate con bionde parrucche. Erano, questi, comportamenti da cortigiane, e nessuna seria matrona romana si sarebbe mai permessa simili libertà. Quando i Romani estesero il loro dominio sulle città etrusche imposero nuovi modelli di comportamento anche alle donne, che i sarcofaghi dell’epoca ci mostrano compostamente sedute ai piedi del letto su cui è disteso il marito.
Quindi la società etrusca non sembra essere matriarcale…. pertanto anche se in alcune fonti greche compare la parola “ginecocrazia”, questa è da intendersi con il significato di matrilinearità e cioè discendenza in linea materna. Un dato molto significativo è rappresentato dall’abitudine, riscontrata nelle iscrizioni tombali, di indicare anche il nome della madre dopo quello del padre: “L’arth, figlio di Arruns Pl’eco e di Ramtha Apatrui”. Queste tradizioni onomastiche sopravvissero in Etruria pure dopo la romanizzazione; anche le iscrizioni in latino continuano a rispettare l’antica regola: “Lucius Gellius, figlio di Caio, nato da Senia”, oppure “Vibia figlia di Vibius Marsus, nata da Laelia”, in questi casi però il “figlio di” è seguito dal nome del padre, mentre “nata da” suggerisce una forma “d’uso” della madre come fattrice. Forse lo status femminile stava ormai offuscandosi.
Nella Roma arcaica il modello femminile era rappresentato da donne come Claudia e Turia, sulle cui lapidi sono incise lodi che ne esaltano la bellezza, la fedeltà e il senso di sottomissione al marito: la donna doveva infatti essere lanifica, pia, pudica, casta e domiseda. Tuttavia, alcune donne si dedicavano alle arti e alla letteratura o comunque proponevano un’immagine femminile diversa da quella tradizionale; queste donne facevano una scelta che la coscienza sociale non accettava: la donna diversa era considerata degenerazione, corruzione e pericolo, come possiamo vedere dalla dura repressione dei culti bacchici che furono stroncati nel 186 a.C..
Il modello era sempre quello della matrona univira, moglie e madre, che nell’adempimento dei suoi doveri familiari dimenticava se stessa o, meglio, che in questi si realizzava (come Cornelia, madre dei Gracchi) e per sé non chiedeva come ricompensa che la consapevolezza di aver contribuito alla grandezza di Roma.
La donna romana non era segregata, come la donna greca, anzi, i romani consideravano onorevole per una donna, un comportamento che i greci non le avrebbero mai consentito: non pensavano che essa dovesse vivere rinchiusa in apposite zone della casa, che non potesse banchettare con gli uomini o uscire liberamente nelle strade.
La donna romana insomma non era legata, come la donna greca, a una funzione puramente biologica ma era anche strumento fondamentale di trasmissione di una cultura, il cui perpetuarsi era in misura non trascurabile affidato al suo contributo visto che a differenza di quelle greche, esse educavano personalmente i loro figli. Toccava infatti a loro prepararli a divenire cives romani, con tutto l’orgoglio che questo comportava. E, se lo facevano, erano ricompensate dal tributo di un onore che alla donna greca non veniva mai tributato.
Forse la liberalità dei romani verso le loro donne non è del tutto casuale. Dati i loro compiti, esse dovevano essere in qualche modo partecipi della vita degli uomini per assimilarne i valori e diventarne le più fedeli trasmettitrici.
Tipici documenti della vita sociale romana sono i ritratti e i rilievi funerari nei quali i due coniugi sono rappresentati l’uno accanto all’altro, in una condizione di reciproco rispetto e di assoluta parità. Ai pasti familiari, la moglie sedeva a tavola con il marito: ma per l’uomo si trattava di sdraiarsi sopra il letto tricliniare, mentre invece la donna, forse per il fatto che doveva contemporaneamente badare a nutrire i figli, veniva rappresentata seduta su una poltrona a braccioli, a fianco del letto su cui il marito era sdraiato.
Nessuna limitazione era posta alla libertà di movimento delle donne: uscivano da sole, frequentavano i negozi e le terme; non vivevano come la donna attica del V secolo, le cui uscite di casa non erano frequenti e dovevano avere una giustificazione, ma piuttosto come la donna greca dell’età ellenistica.
Nell’ultimo secolo della repubblica la condizione delle donne andò progressivamente migliorando giungendo al punto che, pur essendo escluse dalla vita pubblica, avevano attraverso la vita domestica un’influenza sempre più grande negli affari di stato.
Negli ultimi mesi del 63 a.C. la vita politica romana fu sconvolta da un grosso scandalo: si scoprì infatti, grazie a una serie di denunce e di delazioni e soprattutto all’incredibile ingenuità dei protagonisti, che attorno a Lucio Sergio Catilina, ambizioso discendente di una famiglia di antica nobiltà, si era raccolto un piccolo gruppo tutt’altro che omogeneo con l’intento di dar vita a un colpo di stato violento. L’opera che narra in modo più completo e diffuso la congiura di Catilina è il Bellum Catilinae chiamato più spesso De coniuratione Catilinae, scritto da Sallustio intorno al 40 a.C.