Testo
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sí pensosa sei, tu forse intendi
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo 65
scolorar del sembiante,
e perir della terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto 70
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci 75
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
star cosí muta in sul deserto piano, 80
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando: 85
— A che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono? —
Cosí meco ragiono: e della stanza 90
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa, 95
per tornar sempre lá donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento, 100
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrá fors’altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata, 105
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno, 110
ogni estremo timor subito scordi;
ma piú perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno 115
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente; ed uno spron quasi mi punge
sí che, sedendo, piú che mai son lunge 120
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so giá dir; ma fortunata sei. 125
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
— Dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso, 130
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? —
Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una, 135
o come il tuono errar di giogo in giogo,
piú felice sarei, dolce mia greggia,
piú felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: 140
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale.
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Parafrasi:
61-70: Anche tu,
solitaria e eterna viaggiatrice,
che sei così pensosa,
forse comprendi questo vivere terreno,
il nostro soffrire, il sospirare;
comprendi cosa significhi morire,
quel supremo scolorare del volto,
e perire della terra,
scomparendo da ogni compagnia
amata e abituale.
Tu certamente capisci il perché delle cose
e conosci il frutto del passare
del tempo, mattina e sera,
del suo tacito e infinito scorrere.
71-78: Tu certamente conosci
a quale amore la primavera sorrida,
a chi giovi l’ardore
e che procuri l’inverno con i suoi ghiacci.
Sai mille cose,
scopri mille segreti
che sono celati al semplice pastore.
79-86: Spesso, quando ti vedo immobile
sul deserto piano,
che al limite dell’orizzonte si congiunge col cielo,
o quando ti seguo viaggiando con il mio gregge,
oppure quando osservo in cielo le stelle brillare,
penso fra me: “Perché tante luci?
Cosa fa l’aria infinita
e quel profondo cielo infinito e sereno?
Cosa vuol dire questa immensa solitudine?
E io, chi sono?”
87-98: Così ragiono dentro di me,
e rifletto sull’immensità del cielo
e sulle innumerevoli stelle;
poi penso al tanto lavoro,
al movimento incessante di ogni cosa celeste e terrena,
che girano senza sosta
per tornare sempre là da dove sono partite.
Tuttavia, non riesco a immaginare
alcuno scopo o frutto di tutto ciò.
Ma tu, giovane immortale,
certamente conosci tutto.
99-108: Questo è quello che so e sento:
che di questi giri eterni,
e del mio essere fragile,
forse qualcun altro potrà trarre qualche bene o contentezza;
ma per me la vita è una sofferenza.
109-120: O mia greggia che riposi, oh te beata,
tu non conosci la tua miseria!
Quanta invidia ti porto,
non solo perché quasi non provi affanno
e subito dimentichi ogni difficoltà,
ogni danno, ogni paura;
ma soprattutto perché non provi mai noia.
Quando ti siedi all’ombra, sull’erba,
sei tranquilla e contenta;
e trascorri gran parte dell’anno in quel sereno stato.
121-132: Anch’io mi siedo sull’erba, all’ombra,
ma sento un fastidio che mi invade la mente;
un impulso mi spinge a non trovare pace,
anche stando seduto.
Eppure non desidero nulla,
né ho motivo di piangere.
Non so dire che cosa tu provi
o quanto tu sia felice,
ma certo sei fortunata.
133-143: E io, greggia mia, godo poco,
e non mi lamento solo di questo.
Se tu potessi parlare, ti chiederei:
“Dimmi: perché, stando sdraiata comodamente,
ogni animale si appaga,
mentre a me, quando riposo, assale la noia?”
Forse, se avessi le ali
per volare tra le nuvole
e contare le stelle una a una,
o se potessi vagare di monte in monte
come il tuono, sarei più felice.
Ma forse il mio pensiero,
osservando la sorte degli altri,
è sbagliato: forse,
in qualsiasi forma o condizione,
la nascita è una condanna per chiunque. |