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7 Gennaio 2013Articolo sul carcere che ancora non c’è
In una settimana due persone hanno tentato di ammazzarsi, due detenuti dello stesso penitenziario.
Tra tanti che riescono nell’intento di farla finita, in questi due accadimenti non è andata così, nel primo caso la prontezza di intervento degli Agenti di Polizia Penitenziaria ha consentito di arrivare per tempo, il detenuto è in fin di vita, ma ancora vivo. Nel secondo caso la prontezza di riflessi dei compagni di cella hanno letteralmente sradicato dal buco nero più profondo il compagno dai passi perduti.
Due vite per fare una sola parola, predestinati, numeri di un contenitore tritatutto, anche la disperazione più disperante incontra la via più breve per non riuscire a sopportare l’irraccontabile.
E’ già epitaffio per un carcere così ridotto, miserabile e disumano, c’è urgenza di apostrofare la riflessione, innescare la più piccola provocazione per smetterla con gli omissis sulle responsabilità che non ci sono mai, con le posture scandalizzate di una società in preda al panico dialettico e comportamentale.
Come se fare gli indifferenti, i vendicativi a oltranza, i giustizialisti all’ennesima potenza, avesse il potere di rendere più mansueti gli uomini e le donne detenute, ponesse argine alle conseguenze drammatiche della recidiva, nell’intento di inquadrare in una identica civicità spicchi di umanità allo sbando, delinquenti malati e mai curati, malviventi veri e malviventi inventati, trattati nello stesso modo, una popolazione detenuta composta nella stragrande maggioranza da miserabilità, oltre a quella larga fetta di popolazione cosiddetta libera, ma inchiodata al non fare, e quindi nella più che prevedibile commissione di reati.
In questa cartina tornasole dai riflessi opacizzati dalle informazioni, comunicazioni, dati, non sempre esposti correttamente, perché esplicitati a seconda del tornaconto personale, c’è a fare da ponte la richiesta di una giustizia che tuteli le persone oneste, ma che garantisca equilibrio e comprensione umana verso chi sconta dignitosamente la propria carcerazione.
Giustizia giusta non sta a vendetta, peggio, a indifferenza di riordino, neppure è sinonimo di pena certa, quando la pena è un percorso a ostacoli, malamente accidentato, dove è sempre più obbligante morire di dipendenza, di patologia, di malattia.
La giustizia è un valore alto che cresce dentro una condizione individuale e collettiva che sa schierarsi dalla parte di chi è la vittima, di chi è innocente, di chi soffre inascoltato senza meritarlo, la Giustizia è tale perché non ha paura, non fa passi indietro nei riguardi di chi non vede riconosciuti i diritti fondamentali, di chi è costretto a sopravvivere, anche di chi ha sbagliato e non ha la possibilità di riparare, di diventare una persona migliore.
Ci si impicca, ci si uccide, quando la pena si traveste e muta in un eccesso di condanna, non c’è solamente la restrizione della libertà personale, ma una vera e propria mancanza di diritto, di corretta interpretazione della misura incapacitante, di non cura della salute e della propria dignità personale.
Il non rispetto di queste “prerogative carcerarie” , deprivano lo scopo e l’utilità sociale della pena stessa, che non può esser considerata una punizione o un castigo se non ricompone la solidarietà collettiva, attraverso lo strumento della riparazione che sta nel Dna di ogni possibile giustizia, per ridare autorevolezza e senso al carcere, che punisce il crimine ma rispetta l’uomo, pur sempre cittadino, detenuto.