Perché Auschwitz?
27 Gennaio 2019Maria Michela Romagnoli
27 Gennaio 2019di G.Revelli
E’ stupefacente e istruttivo riflettere sul significato originale delle parole: derivano da una diretta esperienza con la realtà e si riferiscono a fatti ed eventi della nostra esistenza. Fin dal loro originarsi, esse posseggono un carattere figurativo che nel corso del tempo si è andato cancellando come l’immagine su una moneta, sì che risulta visibile solo se indagato da vicino. Se prendiamo la parola possesso” a mo di esempio, si può ben rilevare una simile trasformazione. Il verbo corrispondente possedere” richiama il processo di sedere sopra qualcosa”. Io possiedo una sedia” significava originariamente io sto seduto su una sedia”. Attraverso questo atto io la posseggo. E’ divenuta la mia sedia; se non nell’accezione legale, perlomeno nel senso che questa qui è la mia sedia rispetto ad altre su cui stanno sedute altre persone.
Nelle primissime comunità umane, quando la parola fu creata, possesso definiva probabilmente solo quello che uno poteva usare a fini personali. La cosa principale che si pos-sedeva era il cavallo. Questo, insieme ad altri oggetti impiegati nella vita quotidiana, costituiva un possesso tra le genti che conducevano un’esistenza nomadica. Da allora, possesso e possedere hanno acquisito un significato molto più inclusivo e simbolico. A partire dall’introduzione del concetto legale di proprietà come riconoscimento giuridico e protezione autorizzata da un possesso, è stato possibile accumulare più proprietà di quella che si era in grado di possedere, vale a dire, nel senso originario, di usare a fini personali.
Questo fatto gettò il seme di una parte rilevante dell’umana tragedia. Poiché la parola proprietà sottintende il diritto di disporre di un possesso che si traduce perciò in potere, l’acquisizione della proprietà conduce allo stesso tempo all’accumulazione di potere. La lotta per il potere, il suo conseguimento e il suo impiego a fini positivi, o il suo abuso, rappresenta un aspetto determinante delle nostre esistenze individuali nonché degli eventi politici mondiali.
Il potere che si fonda sulla proprietà ha poco a che vedere con il soddisfacimento umano; è più facile semmai che lo riduca. Legalmente, il possesso si definisce come potere reale di una persona su un’entità, vale a dire, che costui può disporne liberamente, secondo i propri desideri. Si può anche possedere qualcosa che non sia di proprietà; se si prende un utensile a prestito e lo si usa a piacimento, questi è in nostro possesso, ma non ne siamo proprietari. E’ possibile talvolta anche il contrario: dichiariamo qualcosa di nostra proprietà che non possediamo, se con questo si designa la sua accezione di uso, in senso ampio, come relazione attiva o passiva con l’oggetto.
La proprietà non diviene possesso fintanto che non sussista un rapporto esistenziale tra detentore e proprietà. Viceversa, il possesso non si trasforma in proprietà fintanto che non si instauri una relazione astratta, non vi sia cioè attribuzione legale.
Il fatto che solo per la parola possesso vi sia un verbo corrispondente, possedere, ma non per l’altra, proprietà, sottolinea ancora la differenza fondamentale tra le due. Molti sforzi vani, molte dispute, nonché tanta insoddisfazione si dileguerebbero – con un conseguente incremento in giustizia, serenità e felicità – se, sempre più consapevoli di questa differenza, ci concentrassimo più sul possesso reale e meno sulla proprietà.
Se vero possesso significa avere una relazione corporea, sensoriale con un oggetto, allora i soldi non diverranno mai un qualcosa che si possiede; saranno sempre un simbolo di possesso. E’ facilmente comprensibile come il denaro rappresenti una proprietà particolarmente ricercata, in quanto ci permette di ottenere molte cose che possiamo usare e utilizzare per il nostro appagamento; esso ci può offrire un vero possesso.
Non è necessario elencare tutto ciò che il denaro può comprare. Le innumerevoli possibilità di convertirlo in diversi tipi di possesso gli conferisce un potere molteplice che è inerente alla proprietà. E’ utile, tuttavia, riconoscere i limiti della sua capacità di conversione.
Là dove il valore di un possesso è esclusivamente basato sul consumo e sulla gratificazione, esso è determinato dalla capacità del proprietario di soddisfare i propri bisogni. Persino un miliardario può mangiare solo quello che il suo stomaco gli permette. Se ordina in eccedenza, sarà costretto a lasciare il cibo sulla tavola.
Tuttavia, una persona benestante è in grado di soddisfare ai bisogni e ai piaceri del proprio corpo in misura maggiore che non un nullatenente, questo è vero però fino a un certo punto. Se si può spendere più denaro per il cibo, il piacere del mangiare verrà senz’altro ad accrescersi. Ciononostante, il pasto più semplice ha un sapore assai più gustoso per chi è affamato che quello più raffinato lo abbia per chi non lo è. In generale, è una regola che l’intensità della gratificazione dei piaceri corporei sia definita dall’estensione del bisogno corrispondente, dall’appetito nel senso più ampio del termine; ma un appetito non può essere comprato e questo ripaga di molte ingiustizie sociali.
Il tipo di proprietà più adatta a un bene specifico dipende innanzitutto dalle caratteristiche intrinseche del bene stesso, cioè dalle sue caratteristiche strutturali e funzionali in rapporto a due criteri particolari: la possibilità di escludere altri dal suo uso e la rivalità (o sottraibilità) del bene. Alcuni beni sono infatti esclusivi, cioè possono essere facilmente recintati, sottratti agli altri. Tipicamente gli oggetti materiali possono essere facilmente delimitati e protetti. I beni immateriali invece, come la lingua, la matematica, le scienze, le trasmissioni televisive e radiofoniche che tutti possono vedere e ascoltare, sono assai più difficilmente esclusivi. Alcuni beni sono inoltre sottraibili, cioè sono rivali o limitati, e il loro uso da parte di alcuni ne preclude l’uso da parte di altri. Questi beni possono essere usati solo da una persona per volta: più persone contemporaneamente non possono indossare lo stesso cappotto, mangiare lo stesso cibo, o usare lo stesso cellulare. Al contrario, le conoscenze, le reti di comunicazione, le strade, i programmi televisivi e radiofonici non sono beni rivali o competitivi e possono – anzi devono – essere utilizzati da più utenti.
In base ai due criteri di esclusività e di rivalità, è possibile distinguere quattro tipologie ideali di beni che, nella realtà, hanno comunque dei confini mobili: quelli privati, quelli di club, quelli comuni e quelli pubblici.
Al primo gruppo appartengono per esempio alcuni beni come il cibo, le automobili e i personal computer che, in linea generale, si prestano facilmente a diventare proprietà privata, anche se i tempi attuali si caratterizzano per l’adozione di nuovi stili di vita in cui sia i Pc che le automobili possono in alcuni casi essere condivisi.
Al secondo gruppo appartengono quei beni che possono essere esclusivi ma sono al tempo stesso condivisi da particolari comunità, come le scuole o le biblioteche comunali; altri beni, per il possesso dei quali possono anche scatenarsi duri conflitti, sono invece contendibili e contemporaneamente scarsi e rivali: per esempio le terre delle riserve indiane o i giacimenti minerari e fossili.
I beni pubblici sono quelli da cui è difficile escludere qualcuno, ma che non sono rivali o limitati, come per esempio l’aria e l’acqua di mare. Anche in questo caso, però, i confini sono mobili: alcuni beni pubblici che non erano scarsi lo stanno diventando o lo sono già diventati, come lo strato di ozono, l’acqua e l’aria pulita. I beni pubblici più puri, quelli che più difficilmente possono diventare esclusivi e rivali, sono immateriali, come il linguaggio, le informazioni, le conoscenze e il protocollo Internet di comunicazione. Per sua natura, la conoscenza rappresenta un bene sociale che si diffonde senza consumarsi e le idee, che costituiscono la base unica del progresso dell’umanità, non possono essere di proprietà esclusiva di qualcuno. E’ difficile escludere qualcuno dal teorema di Euclide o dall’ascolto di una trasmissione radiotelevisiva; chi insegna il teorema del filosofo greco lo trasmette inoltre ai suoi alunni ma non se ne priva; e chi fa ascoltare la sua radio ad altri non si priva dei programmi che ascolta. Questi beni non esclusivi e non rivali sono così comuni e così condivisi che gli economisti li definiscono pubblici e li distinguono dagli altri commons materiali che ammettono più facilmente l’esclusione e la rivalità, come i pascoli, gli asili nido, le miniere, le scuole o le zone di pesca.
L’economia immateriale è quella più densa di beni pubblici, come le informazioni e le conoscenze, come il linguaggio, che sono il frutto della società e della produzione intellettuale collettiva. Il linguaggio è un bene comune gratuito e non potrebbe essere né dei singoli privati né dello stato; e così pure le leggende e le favole o la musica popolare o le conoscenze tradizionali e comunitarie nel campo dell’agricoltura, dell’allevamento e della medicina, che costituiscono un patrimonio millenario sempre più privatizzato dalle industrie agroalimentari e farmaceutiche. Ovviamente anche le informazioni e le conoscenze possono essere ridotte a proprietà privata o statale, ma è, per così dire, innaturale e costoso, inefficiente ridurle a beni esclusivi e limitare la loro diffusione. La riduzione delle conoscenze a proprietà privata e l’imposizione di barriere alla rapida diffusione delle innovazioni rappresentano infatti una limitazione allo sviluppo e uno spreco, una sottoutilizzazione di una risorsa pregiatissima.
La condivisione dei beni immateriali, come la conoscenza, ha infatti una particolarità: genera la moltiplicazione delle risorse di partenza. La conoscenza è sia un prodotto che una materia prima, e quindi è una risorsa che può essere arricchita all’infinito se circola senza vincoli e barriere. L’economia immateriale della conoscenza è un’economia della condivisione e della moltiplicazione, un’economia dai rendimenti crescenti: più un linguaggio è parlato, più è ricco; più gli scienziati e i ricercatori si scambiano conoscenze, più è facile che si creino nuove conoscenze, innovazioni e scoperte.
Il tema della conoscenza intesa come bene anomalo”, che più si condivide con altri più cresce ed evolve, è sempre più al centro dell’attuale dibattito pedagogico, oltre che economico. E’ centrale in particolar modo nel mondo della scuola, una realtà purtroppo molto sottovalutata, nei confronti della quale studiosi come l’economista Raj Patel o il filosofo Andrea Braggio sono invece molto sensibili. Diciamo pure che a tutti i filosofi della condivisione stanno molto a cuore le sorti della scuola e delle giovani generazioni, il futuro delle quali è in questo momento fortemente compromesso. Pensiamo solamente a quanto si sia battuto e si stia tuttora battendo Raj Patel per favorire l’introduzione in diversi quartieri poveri negli Stati Uniti di progetti di distribuzione gratuita di pasti a tutti gli allievi, educando al diritto al cibo e mostrando come la scuola possa diventare non solo il luogo privilegiato della condivisione della conoscenza e di importanti valori come laltruismo e la solidarietà, ma anche di una cultura per un cibo buono e sano.
Nella scuola, ai temi della conoscenza e della sua condivisione si accompagnano innanzitutto i temi dell’insegnamento e della ricerca. Oggi si parla con insistenza dell’insegnante ricercatore. Come ha fatto notare il filosofo Andrea Braggio, proprio a partire dalla sua personale esperienza di insegnante ed educatore, quello che vi è del ricercatore in un docente non è una qualità o una forma d’essere o di agire che accresce quelle dell’insegnamento. Lindagare, l’andare alla scoperta e la ricerca, la curiosità nel suo più elevato e nobile significato, fanno parte invece della natura stessa della pratica del docente. Ciò di cui ha bisogno un insegnante nella sua formazione permanente, è il sentirsi e il considerarsi seriamente un ricercatore, proprio in quanto insegnante. Insegnamento e ricerca non sono dunque disgiungibili. Come insegnante devo sapere che senza la curiosità che mi muove, che mi pone interrogativi, che mi inserisce nella ricerca, non imparo né insegno.
Insegnare non è però trasferire conoscenza, ma creare le possibilità per la sua costruzione; e condividere con altri la propria conoscenza, frutto di studi, osservazioni e ricerca continua, significa mettere il prossimo nella condizione di evolvere, di crescere come essere umano.
Ognuno di noi dà ciò che è. Quando condividiamo il nostro sapere facciamo dono agli altri di noi stessi. Grazie alla condivisione della conoscenza l’allievo – ma anche il docente – si arricchisce” e, nella misura in cui costruisce un suo percorso formativo autonomo, diventa a sua volta costruttore di sapere.
Sarò allora un insegnante tanto migliore quanto più efficacemente riuscirò a indurre l’allievo a preparare o raffinare la sua curiosità, a lavorare con il mio aiuto al fine di produrre una sua comprensione dell’oggetto o del contenuto di cui parlo. In realtà, il mio compito di insegnante non consiste soltanto nello sforzo di descrivere con la massima chiarezza possibile la sostanza del contenuto perché l’alunno lo possa fissare bene nella mente. Il mio compito consiste piuttosto nel parlare con la massima chiarezza possibile dell’oggetto e nellincitare l’alunno a elaborare egli stesso, con i materiali che gli offro, la comprensione dell’oggetto, invece di riceverla belle pronta da me. Egli ha bisogno di appropriarsi della comprensione del contenuto perché si instauri un’autentica relazione di comunicazione tra me, insegnante, e lui, alunno. E’ per questo, ripeto, che insegnare non è il semplice trasferimento dei contenuti a qualcuno, così come apprendere non è mandare a memoria il profilo del contenuto veicolato dal discorso calato dall’alto dal docente. Insegnare e apprendere hanno a che vedere con lo sforzo critico dell’insegnante di portare alla luce” la comprensione di qualcosa, e con l’impegno egualmente critico dell’alunno di entrare man mano, come soggetto in fase di apprendimento, nella dinamica che il docente deve innescare. Questo non ha niente a che vedere con un semplice trasferimento di contenuti ed evidenzia la difficoltà, ma al tempo stesso la bellezza, dell’essere docente e dell’essere discente.
Uno dei miei compiti essenziali come insegnante è dunque sostenere l’allievo affinché sia egli stesso a superare le proprie difficoltà nella comprensione o nel discernimento dell’oggetto, e perché la sua curiosità, che trova una gratificazione nel successo della comprensione raggiunta, non venga meno e in questo modo sia stimolata a continuare quella ricerca permanente che implica il processo di conoscenza.
Bibliografia consigliata
C. R. Rogers, Libertà nell’apprendimento, Giunti Barbera, 1973.
C. R. Rogers, Barry Stevens, Da persona a persona. Il problema di essere umani, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, 1987.
Dominique Foray, L’economia della conoscenza, Il Mulino, 2006.
Yochai Benkler, La ricchezza della rete. La produzione sociale trasforma il mercato e aumenta la libertà, Milano, Egea Università Bocconi, 2007.
E. Grazzini, L’economia della conoscenza oltre il capitalismo. Crisi dei ceti medi e rivoluzione lunga, Codice Edizioni, 2008.
R. Cesaria, S. Di Guardo (a cura di), Knowledge Working. Lavoro, lavoratori, società della conoscenza, Mondadori Università, 2008.
E. Ostrom, La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica, Milano, Bruno Mondadori, 2009.
R. Patel, I padroni del cibo, Feltrinelli, 2008.
R. Patel, Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo, Feltrinelli, 2010.
Eric Holt-Giménez (a cura di), Food Movements Unite. Strategie per trasformare i nostri sistemi alimentari, Slow Food Editore, 2011.