La progettazione del romanzo è molto lunga, perché lui comincia a pensarci nel 1908-10 (ci sono interviste e lettere che lo testimoniano) ma lo pubblica solo nel 1925-26.
In una lettera del 1912, per esempio, scrive: ho per le mani il romanzo più amaro di tutti, sulla scomposizione della vita: Moscarda: uno nessuno e centomila
Il relativismo è ben testimoniato da questi brani:
Abbiamo tutti dentro un mondo di cose, ciascuno il suo. E come possiamo intenderci?”
Ah, quei monti. Anche voi dite azzurri?” (II,8)
Nel capitolo 12 del libro II, il protagonista è, per la moglie, Gengè, non Vitangelo, quindi, un’altra persona.
Il nome stesso del protagonista è significativo:
Moscarda (mosca = il protagonista è un inetto, soprattutto per il padre, come Zeno per il padre, e la sua riflessione è insistita e fastidiosa) è un Vitangelo, cioè un angelo che si pone al di fuori della vita.
Non è la prima volta che il protagonista di un romanzo sia un angelo”: era già accaduto ne I quaderno di Serafino Gubbio operatore”
L’angelo, per Pirandello, è segno di colui che vede la vita dall’alto, dall’esterno.
Uno, nessuno e centomila – un brano
Rientrando in casa, vi trovai Quantorzo in seria confabul’azione con mia moglie Dida.
Comerano a posto, sicuri, seduti tutte due nel salottino chiaro in penombra; l’uno grasso e nero, affondato nel divano verde; l’altra esile e bianca nella sua veste tutta a falbalà, in punta in punta e di tre quarti sulla poltrona accanto, con una freccia di sole sulla nuca. Parlavano certo di me, perché, come mi videro entrare, esclamarono a un tempo:
Oh, eccolo qua!
E poiché erano due a vedermi entrare, mi venne la tentazione di voltarmi a cercare l’altro che entrava con me, pur sapendo bene che il «caro Vitangelo» del mio paterno Quantorzo non solo era anch’esso in me come il «Gengè» di mia moglie Dida, ma che io tutto quanto, per Quantorzo, altri non ero che il suo «caro Vitangelo», proprio come per Dida altri che il suo «Gengè». Due, dunque, non agli occhi loro, ma soltanto per me che mi sapevo per quei due uno e uno; il che per me, non faceva un più ma un meno, in quanto voleva dire che ai loro occhi, io come io, non ero nessuno.
Ai loro occhi soltanto? Anche per me, anche per la solitudine del mio spirito che, in quel momento, fuori d’ogni consistenza apparente, concepiva l’orrore di vedere il proprio corpo per sé come quello di nessuno nella diversa incoercibile realtà che intanto gli davano quei due.
Mia moglie, nel vedermi voltare, domandò.
Chi cerchi?
Maffrettai a risponderle, sorridendo:
Ah, nessuno, cara, nessuno. Eccoci qua!
Non compresero, naturalmente, che cosa intendessi dire con quel «nessuno» cercato accanto a me; e credettero che con quell«eccoci» mi riferissi anche a loro due, sicurissimi che lì dentro quel salotto fossimo ora in tre e non in nove; o piuttosto, in otto, visto che io – per me stesso – ormai non contavo più.
Voglio dire:
Dida, com’era per sé;
Dida, com’era per me;
Dida, com’era per Quantorzo;
Quantorzo, com’era per sé;
Quantorzo, com’era per Dida;
Quantorzo, com’era per me;
il caro Gengè di Dida;
il caro Vitangelo di Quantorzo.
Uno, nessuno e centomila – come finisce?
Vitangelo per smascherare se stesso (dopo la scoperta che il suo naso pende a destra) rinnega suo padre, l’usuraio da cui aveva ereditato la ricchezza, e così nega la legge positivistica della ereditarietà, facendo donazioni assurde al povero Marco Di Dio e alla sua famiglia (scardinamento del principio razionale di non-contraddizione).
Poi, francescanamente, si spoglia di tutto davanti al vescovo
Infine si rinchiude in un ospizio