Vita come opera d’arte
27 Gennaio 2019I nostri giorni proibiti
27 Gennaio 2019Eneide Libro IX – versi 314-449
Usciti, superano i fossi, e nell’ombra della notte 314
si dirigono al campo nemico, ma prima sarebbero stati
di eccidio a molti. Sull’erba vedono corpi rovesciati
dal sonno e dal vino, carri con il timone alzato sulla riva,
uomini tra briglie e ruote, e giacere insieme
armi e otri. Per primo l’Irtacide parlò così:
Eurialo, osiamo col braccio; la situazione c’invita.
La via è per di qua. Affinché nessuna schiera
possa coglierci da tergo, provvedi e vigila da lontano;
io seminerò strage, e ti guiderò in un vasto solco.
Così dice, e frena la voce; ed assale con la spada
il superbo Ramnete, che su spessi tappeti
ammucchiati spirava sonno dal profondo del petto:
era re e augure, gratissimo al re Turno,
ma con l’augurio non poté allontanare da sé la rovina.
Vicino uccide tre servi che giacevano a caso
tra le armi, e lo scudiero di Remo; all’auriga trovato
sotto i cavalli col ferro squarcia il collo riverso;
poi decapita il loro padrone, e lascia il tronco
rantolante nel sangue; la terra e i giacigli s’intridono
caldi di nero umore. E anche Lamiro e Lamo,
e il giovane Serrano, che aveva giocato fino alla notte
più tarda, bellissimo d’aspetto; giaceva con le membra vinte
dall’eccesso del dio.
Come un leone digiuno che sconvolge un gremito ovile
(lo spinge una fame furiosa) e addenta e trascina le tenere
pecore mute di terrore; ruggisce con le fauci insanguinate.
Non minore la strage di Eurialo; ardente anch’egli
imperversa, e nel folto assale una grande anonima
folla, Fado, e Erbeso, e Reto e Abari
inconsapevoli; Reto si era svegliato e tutto vedeva,
celandosi atterrito dietro un grande cratere:
mentre si alzava Eurialo gli immerse da presso la spada
in pieno petto, e la estrasse con molta morte.
Quegli emette l’anima purpurea, e morendo rigetta
vino misto a sangue; questi, fervido incalza nell’agguato.
Si appressava ai compagni di Messapo; lì vedeva
morire l’ultimo fuoco e legati secondo l’usanza
i cavalli a brucare l’erba, quando brevemente Niso:
– Siamo trasportati da troppa foga di strage –
smettiamo, disse, poiché s’avvicina la luce nemica;
ci siamo vendicati abbastanza; e s’apre la via tra i nemici.
Lasciano numerose armi di guerrieri, forgiate
in argento massiccio, e crateri e bei tappeti.
Eurialo afferra, adattandole alle spalle inutilmente forti,
le borchie di Ramnete e la tracolla a placche d’oro,
che un tempo il ricchissimo Cedico mandò in dono
a Remulo tiburte, stringendo amicizia da lontano;
quegli morendo la dà in possesso al nipote; dopo la morte
i Rutuli se ne impadroniscono guerreggiando in battaglia.
Poi indossa l’elmo di Messapo, agevole e adorno
di creste. Escono dal campo, e prendono vie sicure.
Frattanto cavalieri mandati in avanscoperta dalla città latina,
mentre il grosso dell’esercito indugia schierato nella pianura,
andavano e portavano a Turno risposte del re:
trecento, tutti armati di scudi, guidati da Volcente.
E già s’avvicinavano al campo, e arrivavano al muro,
quando li scorgono lontano piegare in un sentiero a sinistra;
L’elmo tradì l’immemore Eurialo nell’ombra
luminescente della notte, e rifulse percosso dai raggi.
Non passò inosservato. Grida dalla schiera Volcente:
«Fermatevi, uomini; che ragione all’andare? che soldati
siete? dove vi dirigete?. Essi non si fecero incontro,
ma fuggirono veloci nel bosco e s’affidarono alla notte.
Da tutte le parti i cavalieri si slanciano nei noti
bivii e circondano di guardie tutti gli sbocchi.
Era una vasta selva irta di cespugli e di nere
elci, e dovunque la riempivano fitti rovi;
lucevano radi sentieri tra piste occulte.
Ostacolano Eurialo le tenebre dei rami e la pesante preda,
e il timore lo trae in inganno con la direzione delle vie.
Niso s’allontana. Incauto, oltrepassa il nemico,
e i luoghi che dal nome di Alba si chiamarono Albani
– allora alte pasture deteneva il re Latino –
quando si ferma e si volge inutilmente all’amico scomparso:
«Eurialo, infelice, dove mai ti ho lasciato?
E per dove seguirti?. Ripercorrendo tutto l’incerto cammino
della selva ingannevole, e insieme scrutando le orme,
le percorre a ritroso ed erra tra i cespugli silemi.
Ode i cavalli,ode lo strèpito e il richiamo degli inseguitori:
non passa lungo tempo quando gli giunge agli orecchi
un clamore e vede Eurialo; già tutta la turba,
con improvviso tumulto impetuoso, trascina lui oppresso
dall’inganno della notte e del luogo, lui che tenta invano ogni difesa.
Che fare? con quali forze ed armi oserà salvare
il giovane? o si getterà per morire sulle spade
nemiche, e affretterà con le ferite la bella morte?
Rapidamente ritratto il braccio vibrando l’asta,
e guardando l’alta Luna, prega così:
Tu, o dea, favorevole soccorri la nostra sventura,
bellezza degli astri, latonia custode dei boschi.
Se mai per me il padre Irtaco portò doni
alle tue are, e io li accrebbi con le mie cacce,
o li appesi alla volta del tempio, o li affissi al santo fastigio,
fa’ che sconvolga quella schiera, e guida l’arma nell’aria».
Disse, e con lo sforzo di tutte le membra scagliò il ferro:
L’asta volando flagella le ombre della notte,
e di fronte colpisce lo scudo di Sulmone, e ivi
s’infrange, e attraversa i precordi col legno spezzato.
Quello rotola gelido vomitando dal petto
un caldo fiotto, e batte i fianchi in lunghi singulti.
Scrutano intorno. Imbaldanzito, ecco Niso
scagliare una lancia dalla sommità dell’orecchio.
E mentre s’affannano, L’asta attraversa le tempie di Tago,
stridendo, e tiepida rimase nel cervello trafitto.
Infuria atroce Volcente. e non scorge in nessun luogo
l’autore del colpo, né dove possa scagliarsi rabbioso.
Ma tu intanto mi pagherai con caldo sangue
la pena di entrambi,disse; e snudata la spada,
si gettò su Eurialo. Allora sconvolto, impazzito
Niso grida – non seppe celarsi più a lungo
nelle tenebre, o sopportare un tale dolore -:
«Io, io, sono io che ho colpito, rivolgete contro di me il ferro,
Rutuli! L’insidia è mia; costui non osò e non poté
nulla (lo attestino il cielo e le consapevoli stelle);
soltanto amò troppo lo sventurato amico.
Così diceva; ma la spada vibrata con violenza
trafisse il costato e ruppe il candido petto.
Eurialo cade riverso nella morte, il sangue scorre
per le belle membra, e il capo si adagia reclino sulla spalla:
come un fiore purpureo quando, reciso dall’aratro,
languisce morendo,o come i papaveri che chinano il capo
sul collo stanco quando la pioggia li opprime.
Ma Niso s’avventa sul folto e cerca fra tutti
il solo Volcente, contro il solo Volcente si ostina.
I nemici, addensatisi intorno a lui da tutte le parti,
lo stringono da presso; egli incalza ugualmente
e ruota la spada fulminea, finché non la immerse
nella bocca del rutulo urlante, e morendo tolse la vita
al nemico. Allora, trafitto, si gettò sull’amico
esanime, e alfine riposò in una placida morte.
Fortunati entrambi! Se possono qualcosa i miei versi,
mai nessun giorno vi sottrarrà alla memoria del tempo, 449